IMMANUEL KANT ILLUMINISTA

MOMENTI CRUCIALI NELLA STORIA DEL PENSIERO

IMMANUEL KANT ILLUMINISTA

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“La nostra epoca è la vera e propria epoca della critica, cui tutto deve sottomettersi. La religione mediante la sua santità e la legislazione mediante la sua maestà vogliono di solito sottrarsi alla critica. Ma in tal caso esse suscitano contro di sé un giusto sospetto e non possono pretendere un rispetto senza finzione, che la ragione concede soltanto a ciò che ha potuto superare il suo esame libero e pubblico”.
Queste parole figurano nella prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura pubblicata a Riga nel 1781. Se la nostra epoca è l’epoca della critica, dice Kant, non ci si potrà stupire che la ragione stessa, la capacità conoscitiva in genere, venga portata davanti ad una sorta di tribunale; venga in altri termini sottoposta ad un esame che ne accerti le possibilità e i limiti, che la “garantisca nelle sue giuste pretese, ma possa per contro sbrigarsi di tutte le pretensioni senza fondamento”. Tale esame è appunto istituito nella Critica della ragione pura, che sarebbe pertanto inconcepibile al di fuori “dell’epoca della critica”.
Il passo sopracitato è molto importante, a mio avviso, per collocare storicamente l’opera e la figura di Kant, per mostrare come il suo pensiero, – in alcuni almeno dei suoi fondamentali motivi ispiratori – sia solidale con il proprio tempo e si inserisca in quell’orizzonte culturale illuministico prescindendo dal quale non potrebbe assolutamente essere inteso. Kant coglie chiaramente l’esigenza fondamentale della sua epoca, il suo programma di intransigenza critica, il suo rifiuto di accettare passivamente i modi di vita del passato, il suo anti tradizionalismo, e vi aderisce sviluppandolo e portandolo avanti per conto proprio. Parla, convinto, un linguaggio volterriano. Nonostante la gravità e la pacatezza delle sue parole, lo spirito che le anima non è poi tanto lontano da quello di Claude-Adrien Helvétius (Parigi, 26 gennaio 1715 – Versailles, 26 dicembre 1771), uno degli illuministi più combattivi, il quale auspicava la scomparsa della “stupida venerazione dei popoli per le antiche leggi e le antiche abitudini” vedendo in tale venerazione l’ostacolo maggiore alle grandi riforme che egli reputava necessarie.
Del resto, tre anni dopo, nel 1784, in un breve saggio dal titolo Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? Kant è non solo esplicito ma eloquente e perfino enfatico nel tessere l’elogio dello spirito del suo tempo: “L’illuminismo – egli scrive – è l’uscita degli uomini da una minorità a loro stessi dovuta. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro… Sàpere aude!, abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto, è il motto dell’illuminismo”.

“SVEGLIATO” DA HUME

Emmanuel Kant nacque nel 1724 a Königsberg, città della Prussia orientale presso il mar Baltico, e mori nella stessa città ottant’anni dopo (1). La sua vita trascorse in modo tranquillo e scrupolosamente metodica, tutta volta alla meditazione e alla mente a problemi di carattere scientifico; in filosofia esordi come seguace della scuola leibniziano-wolfiana, ma gradualmente l’influenza dell’empirismo di David Hume lo sottrasse al dogmatismo caratteristico di quell’indirizzo. Kant riconoscerà poi, apertamente, il suo debito intellettuale verso Hume attribuendo al pensatore scozzese il merito di averlo “svegliato dal suo sonno dogmatico”.
Tralasciando i moltissimi scritti minori, le opere fondamentali di Kant, dopo la già menzionata Critica della ragion pura che ebbe una seconda edizione con notevoli varianti nel 1787, sono la Critica della ragion pratica in cui analizza le condizioni del volere (della condotta morale) e la Critica del giudizio, in cui studia la facoltà del sentimento la quale dà luogo al giudizio di gusto (cioè all’apprezzamento estetico) e al giudizio finalistico in riferimento ai fenomeni della natura.

Nella prima parte della sua carriera di studioso, si dedicò largamente all’attività di insegnante nella locale Università.

Nonostante la sua vocazione di studioso appartato, non furono assenti nel filosofo tedesco interesse ed attenzione per le vicende politiche a lui contemporanee, né mancò un attrito con le pubbliche autorità. Nel decennio dal 1780 al 1780 Kant simpatizza per le colonie americane nella loro lotta di indipendenza e nell’Ottantanove manifesta un vivo entusiasmo per l’inizio e per le prime fasi della Rivoluzione francese; nel 1794 viene a contrasto con il governo in seguito alla pubblicazione del’ suo scritto La religione entro i limiti della semplice ragione.
Da parte regale gli si ingiunge di non esprimere più le sue idee in materia di religione e Kant, pur protestando dignitosamente, si affretta ad obbedire. Il pensatore di Königsberg avversava gli arbitri del dispotismo, le intolleranze, i veti della censura; il suo ideale politico era favorevole alla libertà, ad una costituzione repubblicana, al cosmopolitismo di stampo illuministico, alla formazione di una federazione di Stati che mettesse al bando le guerre – e tali idee espose in uno scritto dal titolo Per la pace perpetua -, ma egli si professò sempre suddito devoto e fedele del re di Prussia, e come tale si comportò di fatto.

METAFISICA E SCIENZA

L’esame della situazione culturale del suo tempo permette a Kant di fare due constatazioni che sono decisive per l’impostazione del suo pensiero nella Critica della ragion pura. Egli sottolinea: a) l’inconcludenza dei dibattiti metafisici in cui regna un insanabile conflitto di opinioni; b) il progresso sicuro e non contestato della scienza fisico-matematica della natura che trova la sua esemplificazione maggiore nel1’opera di Isaac Newton (Woolsthorpe-by-Colsterworth, 25 dicembre 1642 – Londra, 20 marzo 1726) di cui Kant fu studiosissimo, in armonia con tutto l’ambiente colto del Settecento. La prima constatazione porta Kant a chiedersi se la metafisica, nella sua accezione tradizionale, sia possibile come vero ed autentico sapere; la seconda lo conduce a porsi il problema del come sia possibile la conoscenza in genere e quella scientifica in particolare. Sono questi i due quesiti che, nella loro complementarità, costituiscono l’essenza del criticismo.
Già assai prima del 1781, in un lavoro del 1763, Kant parlava della metafisica come di un “abisso senza fondo”, un “oceano tenebroso senza sponde e senza fari”; in uno scritto del 1766 paragonava sarcasticamente i metafisici ai sognatori e ai visionari e lì definiva “architetti di svariati mondi ideali immaginari”. Enunciando un programma di cautela critica a cui non verrà mai meno, scriveva che “per un piccolo paese importa più conoscere bene e tenere i propri possedimenti che andare alla cieca in cerca di conquiste”. Ora, è proprio questo atteggiamento di opposizione verso le avventure incontrollate della metafisica e la tendenza, insieme, a far coincidere il campo della conoscenza valida con l’ambito dell’esperienza, che autorizzano a parlare di un illuminismo kantiano. Il criticismo di Kant è un risultato e un aspetto della mentalità illuministica.
Beninteso, esso ha caratteristiche peculiari ed un posto a se stante nel quadro dell’illuminismo; esso contiene anche (specie con la dottrina della percezione trascendentale o Io penso) alcune elaborazioni teoriche che faranno da premesse ai posteriori sviluppi dell’idealismo romantico post-kantiano. Ma, contrariamente a quanto si è tante volte sostenuto, quegli sviluppi – da Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) in poi – si realizzeranno non sulla linea del kantismo, non nell’ambito di una sostanziale fedeltà ad esso, ma seguendo un diverso e in fondo contrastante cammino.
Tornando ai due quesiti cui si accennava più sopra (se la metafisica sia possibile come scienza e come la conoscenza sia possibile), al primo di essi Kant fa dunque seguire una risposta negativa.
In quanto speculazione intorno al sovra-empirico e all’incondizionato, in quanto indagine rivolta ad oggetti noumenici (2) quali Dio, l’anima e il mondo (mondo inteso come totalità globale dei fenomeni, non come natura nell’accezione scientifica), la metafisica è priva di valore conoscitivo.
L’aspirazione a trascendere l’ambito dell’osservabile, il mondo dell’esperienza, è considerata dal pensatore di Königsberg come una tendenza insopprimibile della natura umana; ma è una tendenza incapace di portare a risultati teoricamente consistenti. Kant riconosce e rispetta la metafisica come interrogativo, come domanda; la rifiuta decisamente come sistema, come risposta.
Più in particolare, una lunga scia di discussioni e di polemiche è stata sollevata dalla contestazione kantiana della teologia razionale e quindi dalla confutazione delle prove dell’esistenza di Dio. Sulla scorta di Hume, Kant non dimostra l’inesistenza di Dio, dimostra la non validità di quelle presunte dimostrazioni. Ed è significativo, in tema di rapporti tra Kant e l’illuminismo, che la distruzione teoretica della metafisica dogmatica e della teologia razionale da parte di Kant sia stata paragonata (dal poeta e pubblicista Christian Johann Heinrich Heine (Düsseldorf, 13 dicembre 1797 – Parigi, 17 febbraio 1856) all’azione eversiva condotta dai rivoluzionari più conseguenti contro l’Ancien Régime. Ciò che è stato fatto praticamente in Francia, dove le condizioni economico-sociali e politiche lo consentivano e lo esigevano, è stato compiuto in sede ideale e ideologica in Germania, dove la società arretrata non permetteva movimenti e trasformazioni rivoluzionarie. Il radicalismo politico dei rivoluzionari francesi ha trovato un suo equivalente, in astratto, nel radicalismo teoretico di Kant. Confronto che troverà un sia pur ingenuo riecheggiamento in quei versi del Carducci in cui si dice che, diversi e lontani fra loro ma uniti da uno stesso “desio di veritade”, Emmanuel Kant “decapitò” Iddio e Maximilien de Robespierre il re.

Al secondo quesito, intorno a cui si svolgono nell’opera kantiana complesse indagini di cui è impossibile in questa sede dar conto, Kant risponde che la possibilità (e la garanzia) del valore universale e necessario delle proposizioni scientifiche si fonda su un complesso di forme a priori (intuizioni pure della sensibilità e categorie dell’intelletto) di cui la facoltà conoscitiva umana è dotata. Tali forme a priori permettono di inquadrare e di ordinare i dati sensoriali acquisiti, dando così luogo a quel mondo di fenomeni che è oggetto della scienza.

MORALE LAICA

Se l’ispirazione illuministica è innegabilmente presente nella Critica della ragion pura, discorso diverso va fatto per quanto riguarda le altre due grandi opere che sarebbe arbitrario far rientrare al pari della prima nell’orizzonte dell’illuminismo (3). La morale dell’imperativo categorico, morale che sottolinea così fortemente il conflitto tra l’ossequio al dovere e le inclinazioni naturali volte alla soddisfazione e alla felicità, si discosta di molto dalle concezioni etiche prevalenti nel XVIII secolo: concezioni che fondano il bene e l’azione morale sul principio di utilità, sul sentimento di simpatia, sull’armonizzazione tra interesse individuale e interesse collettivo.
Tuttavia è da notare che un caposaldo decisivo della morale kantiana è il principio dell’obbedienza alla legge interiore, al comando che proviene dalla universalità della coscienza, in contrasto con l’obbedienza ad una norma di origine esterna e trascendente. Orbene, tale principio rivela una indubbia parentela con il concetto di autonomia affacciato in sede politica da quel Rousseau di cui Kant fu fervido lettore ed ammiratore. “Il popolo, sottomesso alle leggi, deve esserne l’autore” aveva scritto il Ginevrino nel Contratto sociale, e aveva così avviato a quel principio di libertà come autodeterminazione, a quel concetto di libertà come obbedienza alla legge che ci si è prescritta, che su un altro piano trova una parziale rispondenza nella “ragion pratica” kantiana.
Inoltre il tono sostanzialmente laico della morale di Kant riduce la sua distanza, che resta comunque notevole, rispetto alle concezioni illuministiche.
La nozione di Dio, privata di valore sul piano conoscitivo nella prima Critica, viene riammessa da Kant in sede morale come uno dei tre postulati della Ragion pratica (4), ma anche in questa diversa collocazione non si può dire che l’idea teologica abbia una parte essenziale o preminente. A conclusione della Critica della ragion pratica l’autore si preoccupa di lasciare sullo sfondo, per cosi dire, l’Essere supremo. Se il reggitore del mondo, egli argomenta (5), anziché lasciarsi soltanto congetturare, ci fosse davanti agli occhi nella sua “terribile maestà”, la maggior parte delle azioni avverrebbe per il timore, alcune avverrebbero per la speranza, nessuna per il dovere, cioè disinteressatamente.
La condotta umana sarebbe irreprensibile, ma l’azione dell’uomo, impaurito o allettato, si trasformerebbe in una specie di meccanismo. Si farebbe automaticamente il “bene” per evitare i castighi o per guadagnarsi i premi ultraterreni; e tutto si svolgerebbe, dice ancora Kant, come al teatro delle marionette in cui ogni cosa gesticola in modo corretto, ma senza che le figure abbiano vita. Nella dottrina morale kantiana Dio non ha un posto di primo piano.

(1) Con la modifica di frontiere seguita alla seconda guerra mondiale, la città è entrata a far parte di una delle repubbliche dell’U.R.S.S.. con il nome di Kaliningrad.
(2) Noumenico: ossia astrattamente pensabile, ma non conoscibile, sinonimo di sovrasensibile.
(3) Circa la Critica della ragion pratica, vedasi quanto segue; circa la Critica del giudizio, l’opera di Kant che pure piacque ai romantici, essa è certo irriducibile alla mentalità illuminista: specie nella seconda parte (giudizio finalistico). Non bisogna però dimenticare che il giudizio di cui si parla in quest’opera è riflettente e non costitutivo o determinante.
(4) I “postulati” sono la libertà, l’immortalità dell’nima e Dio: Dio come garante della perfetta corrispondenza tra il massimo di felicità e il massimo di virtù nell’ideale del Sommo Bene.
(5) Cfr. Critica della ragion pratica