GEORGE BYRON

George Gordon Noel Byron, VI barone Byron, meglio noto come Lord Byron RS (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824), era un poeta britannico. Considerato da molti uno dei massimi poeti britannici, Byron è stato un uomo di spicco nella cultura del Regno Unito durante il secondo Romanticismo, del quale è stato l’esponente più rappresentativo insieme con John Keats e Percy Bysshe Shelley.

Nell’ottobre del 1816 arrivò a Milano uno strano viaggiatore. Proveniva dalla Svizzera e si trascinava appresso, su quattro carrozze costruite apposta per lui sul modello di quelle usate da Napoleone, un vero e proprio caravanserraglio. Infatti, oltre alla numerosa servitù, si stipavano nelle suddette carrozze scimmie, gatti, cani, due magnifiche galline faraone, una stupenda gru egiziana, un falco e perfino un’aquila reale. Lo stravagante corteo passò per le vie della città fra gli sguardi curiosi del popolino che cercava di indovinare la natura e la destinazione di quell’inverosimile equipaggio. Si trattava forse dell’avanguardia di un circo? Ma le carrozze erano troppo ricche, i domestici troppo ben vestiti, e un uomo incredibilmente bello – certo il padrone del corteo – guardava rapito il sole che indorava le guglie del Duomo.
L’uomo era George Byron, sesto Lord del proprio casato, celebre in Europa per i suoi poemi, le sue stravaganze, la sua ricchezza, i suoi amori tempestosi. Ora egli giungeva in Italia preceduto dallo scandalo che aveva suscitato la rottura del suo matrimonio con Anne Isabella
Milbanke, alla quale poco prima di lasciare l’Inghilterra aveva scritto: “Noi non ci rivedremo più, né in questo mondo né nell’altro.”.
George Byron era considerato allora il principe dei poeti romantici e di conseguenza non c’era scandalo che potesse chiudergli le porte dei salotti milanesi.
Ma Byron, almeno questa volta, deluse le sue più ardenti ammiratrici. Pur accettando volentieri gli omaggi – e gli inviti – dei Romantici italiani capeggiati da Lodovico di Breme, Silvio Pellico e Federico Confalonieri, trascorse la maggior parte del suo tempo in giro per la città, solo, oppure nelle sale della famosa Biblioteca Ambrosiana. Qui, un giorno, eludendo la vigilanza del guardiano, rubò uno dei capelli di Lucrezia Borgia, custoditi in una teca, e il furto lo rese immensamente felice. Tuttavia Milano lo stancò. Allora si rimise in viaggio e, dopo aver fatto una breve tappa a Verona, la città di Giulietta e Romeo, raggiunse Venezia.

Qui prese alloggio nella casa di un mercante e si innamorò della moglie di costui, Marianna Segati: una bella donna di ventidue anni.

“Sono innamorato, il che è la migliore o la peggiore cosa che io possa fare” scrisse Byron a un amico dandogli notizia della sua avventura veneziana. Ma era solo il principio. Benché Marianna cercasse di non fargli mancare mai nulla e di rendergli la vita piacevole al massimo, dopo poco tempo egli le annunciò che intendeva cambiare casa perché aveva bisogno di una dimora più ampia e più fastosa, adeguata insomma al suo grado sociale.

ENTRA IN CAMPO LA FORNARINA

La nuova casa fu presto trovata. Byron s’installò a palazzo Mocenigo, sul Canal Grande. Ma se col trasloco egli intendeva liberarsi anche della amica, si sbagliava. Marianna lo seguì e non lo lasciò nemmeno quando le capitò di trovarsi sotto lo stesso tetto una rivale agguerritissima. Viveva allora a Venezia una popolana famosa per la sua bellezza: Margherita Cogni, soprannominata la “Fornarina”. Byron volle conoscerla. Gli piacque. La invitò senz’altro a palazzo Mocenigo. E lei accettò.
Lo scontro fra le due donne, ambedue decise a non abbandonare il campo, era inevitabile. Con l’ingresso della “Fornarina”, le stanze di palazzo Mocenigo si trasformarono in una sorta di arena nella quale le baldanzose rivali si scontravano spesso dando luogo a zuffe violente.
Nessun uomo normale avrebbe resistito in quell’inferno. Byron, invece, pareva trovarcisi a proprio agio. La sua giornata non aveva orari. Obbediva solo al capriccio del momento. Entrava e usciva quando gli pareva, spesso nel cuore della notte, e girava in gondola o a piedi per la città.
I Veneziani avevano imparato a conoscerlo e, in fondo, a volergli bene. Se lo indicavano a dito come il “zovanoto inglese de un certo nome stravagante” e si chiedevano ammirati e meravigliati quanto tempo egli avrebbe resistito nel caravanserraglio di palazzo Mocenigo.
George Byron era nato a Londra il 22 gennaio 1788. Il padre, John, e la madre, Caterina, non andavano d’accordo e in famiglia c’era sempre una atmosfera di incombente tragedia. Naturalmente, il bambino ne soffrì e venne su malinconico e capriccioso, ossessionato da un’infermità al piede destro, che doveva costringerlo a zoppicare per tutta la vita. Passò la sua prima fanciullezza ad Aberdeen, in Scozia, con la madre, essendosene il padre fuggito a Parigi, dove poi era morto, forse suicida. Le condizioni economiche della famiglia erano tutt’altro che floride. Ma un giorno del 1798, in seguito alla morte di un prozio di cui era l’erede, il piccolo George divenne Lord Byron. La notizia gli fu comunicata in scuola dalla maestra. Tornato a casa, egli si guardò a lungo nello specchio, quindi chiese alla madre: “Ti pare che io sia cambiato da stamattina? Per conto mio, non vedo alcuna differenza. Eppure è ben vero che sono diventato Lord!”.
Così il, ragazzo selvaggio di Aberdeen fu mandato a dirozzarsi e a completare gli studi prima nella celebre scuola di Harrow e poi al Trinity College di Cambridge. Ne uscì infine trasformato. Adesso era un damerino un po’ arrogante che frequentava i migliori salotti, di Londra e aveva un suo seggio alla Camera dei Pari.
Qui pronunciò il suo primo di- scorso nel febbraio del 1812. Ma la politica non lo interessava. Tra l’altro, il prozio gli aveva lasciato in eredità anche il romantico castello degli avi, Newstead Abbey. Lì dentro egli si sentiva un principe, un cavaliere dei tempi antichi. E l’ambiente lo aiutava a sognare una gloria sua, tutta speciale: quella di poeta.
La pubblicazione, avvenuta nel 1812, dei primi due canti del poema Il pellegrinaggio d’Aroldo fece di lui il poeta alla moda, il campione del Romanticismo. Il successo fu poi ribadito dalla pubblicazione di alcune novelle in versi. Abile nello sfruttare tutte le occasioni che gli si presentavano per mettersi in mostra, Byron arrivò a impersonare, agli occhi della gente, la figura vivente dei personaggi tenebrosi di cui raccontava le gesta. Nacque in tal modo il mito byroniano che tanto fascino doveva esercitare sulla fantasia dei giovani e delle donne.

Ormai stanco di passare da un amore all’altro, Byron fece il tentativo di mettere ordine nella propria vita privata sposando Anne Isabella Milbanke. Il matrimonio, celebrato il 2 gennaio 1815, durò appena un anno. Infatti nel gennaio del 1816 Lady Byron fuggì di casa recando con sé la figlioletta Augusta Ada, nata poche settimane prima, e chiese la separazione legale.

Anne Isabella Milbanke

ARRIVA IL GRANDE AMORE

George Byron capì che non poteva sfidare più a lungo la opinione pubblica inglese e partì. La sua meta era l’Italia. Ma si fermò a Ginevra, ospite di un altro grande poeta inglese, Percy Bysshe Shelley. Durante quel soggiorno in Svizzera intrecciò un breve romanzo d’amore con Clara Clermont, la giovane sorella dell’amica dello stesso Shelley. Il frutto di questa relazione fu una bambina, Allegra, che Byron poi prese con sé quand’era ancora in fasce e che era destinata a spegnersi in tenera età.

Ciò che accadde all’arrivo in Italia lo abbiamo già visto. Riprendiamo ora il filo del racconto: il poeta si trova a Venezia, conteso tra Marianna Segati e la bella “Fornarina”. Quando più accanita è la lotta tra queste due donne, improvvisamente compare all’orizzonte una sposina diciassettenne, Teresa Gamba, che appena uscita di convento è stata maritata al conte Alessandro Guiccioli, due volte vedovo e di ben quarant’anni più anziano di lei.

Intelligente, bella e capricciosa, Teresa vuole godersi la vita e non intende sacrificare la propria giovinezza. Incontra George Byron a una festa e se ne innamora perdutamente. Lui la ricambia subito e il gioco è fatto. Ma il conte Guiccioli tiene gli occhi aperti e interrompe l’idillio sul più bello, costringendo la moglie a seguirlo a Ravenna, dove egli ha la sua dimora stabile. Teresa non sa e non vuole fingere. Durante il viaggio si dispera, piange, sviene più volte. E appena giunge a Ravenna cade ammalata. Byron si vede recapitare un suo messaggio in cui lo scongiura di raggiungerla. Come il Principe Azzurro delle favole, egli parte, arriva nella città della donna amata e, poiché non c’è un albergo decente che possa accoglierlo col suo seguito, il conte Guiccioli si trova costretto a offrirgli ospitalità nel proprio palazzo. E la sposa in pochi giorni rifiorisce d’incanto. Naturalmente, il matrimonio di Teresa si sfascia. Ma Byron, a Ravenna, non pensa solo all’amore. Sì lega coi patrioti italiani, è pronto a scendere in campo con le armi in pugno. Scrive a un amico: “L’Italia deve essere liberata. Ecco la vera poesia della politica. Pensate: un’Italia libera! Non vi è stato nulla di simile dai giorni di Augusto in poi!”.  Ma i tempi, purtroppo, non sono ancora maturi. I moti rivoluzionari falliscono e Byron, inquieto viandante, volge gli occhi altrove. Per qualche tempo si trasferisce a Pisa, dove è andata a vivere anche la famiglia di Teresa. Poi lo troviamo a Genova, intento a organizzare aiuti per i Greci, che si sono sollevati contro i Turchi.
E il 15 luglio 1823 si imbarca per l’isola di Cefalonia. Lo seguono Pietro Gamba, fratello di Teresa, un giovane medico italiano e otto domestici. In Grecia la situazione è confusa. Byron cerca invano di orizzontarsi tra i vari gruppi di rivoluzionari. Comunque fa quello che può. Da Cefalonia si trasferisce a Missolungi. Qui è colto da febbri violente. Non se ne cura. Ma dopo una furiosa cavalcata sotto la pioggia deve mettersi a letto. Il 19 aprile 1824, a soli 36 anni, muore, mormorando nel delirio il nome della figlia Ada.
La salma del poeta fu trasportata in Inghilterra, dove ebbe sepoltura tra i suoi avi. Ma il desiderio più profondo di Byron era una tomba semplicissima in Italia con su scritte due parole: “Implora pace”.

Lord Byron a Missolungi (1861)
Theodoros Vryzakis (1814–1878)
Olio su tela cm 155 x 213
Galleria Nazionale di Atene

IL POETA

George Byron fu considerato l’incarnazione del Romanticismo e dello spirito rivoluzionario del secolo. Egli era un ribelle che lanciava agli uomini un messaggio insieme cinico e appassionato. In lui, tuttavia, la poesia appariva strettamente legata all’uomo. Non a caso, perciò, quando cominciò a impallidire il mito del “byronismo”, anche la sua fama ne subì le conseguenze. Allora si passò da un estremo all’altro: prima Byron era l’Omero redivivo poi non fu più che il creatore di troppi versi. Oggi, nessuno nega a George Byron un posto di primo piano nella letteratura europea dell’Ottocento. In realtà, non è facile distinguere in Byron l’oro vero da quello falso. Come la sua vita è piena di contraddizioni d’ogni genere, cosi la sua poesia è disuguale: ora profondamente autentica, ora niente altro che un “vento di parole”.

George Byron

* * * * *

LA SPOSA DI ABIDO Canto primo

Conosci la terra ove il cipresso e il mirto
Sono emblemi di gesta compiute sotto un cielo,
Ove s’infuria rapace l’avvoltoio
O della tortora l’amoroso canto in gemito si spegne?
Conosci la terra del cedro e della vigna,
Ove perenni sbocciano i fiori, e sempre splende il sole
Ove lievi le ali di Zefiro, dense di profumi,
Languide si posano sui rosai in fiore;
Ove il limone e l’ulivo più ricchi son di frutti,
E l’usignolo mai non tace;
Ove della terra e del cielo le svariate tinte gareggiano in bellezza
E più caldi si fanno i riflessi del purpureo mare;
Ove le fanciulle sono fragranti come le rose che intrecciano,
E tutto è divino, tranne lo spirito dell’uomo?
Sono i cieli d’oriente, è la terra del sole.
Può sorridere il sole sui misfatti dei suoi figli?
Ahimè! Come gli addii degli amanti
Han disperati i sentimenti, e le parole.

* * * * *

IL CORSARO –  Canto primo

Cara, segreta, ignota al sol, romita
Vive la cura che m accende il cor;
Risponde al tuo, se a palpitar l’invita,
Poi, come pria, trema in silenzio ancor.
Arde simile a sepolcral facella,
Lenta, non vista e d’immortal virtù:
Ben la speranza può morir, non ella;
Bench’oggi è fioca qual più mai non fu.

* * * * *

LA PARISINA

Volge quell ora che dal bosco ascolti
Alto sonar de l’usignolo il pianto;
Volge quell ora che più dolci accenti
Si pispiglian gli amanti, e lievi aurette
E vicini ruscelli in dolce accordo
Beano i silenzj di solinghe chiostre.
E già fulgono gli astri e già velati
Hanno i fior le rugiade; e più profondo
Il ceruleo dell’acque, e più infoscato
È il color de le fronde e l’aere opaco
Di quel chiaror si dolcemente fosco,
Sì foscamente puro, in che si solve
Il crepuscolo allor che, superato
Da la luna che sorge, il dì s’asconde.
Ma non era l’auretta a udir nè il rio
Che traea Parisina; i fulgid’astri
Non era ad ammirar ch’ella fra l’ombre
Da sue stanze innoltrava; e s’ella posa
Ne l’estense giardin, non è i ridenti
Suoi fiori a vagheggiar ch’ella vi posa.

* * * * *

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