DOTTRINE POLITICHE – LA CONCEZIONE HEGELIANA DELLO STATO ETICO

LA CONCEZIONE HEGELIANA DELLO STATO ETICO

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831) è forse il massimo filosofo dell’età moderna, l’ultimo grande pensatore della corrente dell`idealismo europeo. Nel suo pensiero giungono a maturazione i principali germi che la filosofia moderna era venuta coltivando dal Seicento in poi: immanentismo, razionalismo, storicismo… La sua idea fondamentale costituisce uno sviluppo di quella dei pensatori immanentisti del Sei e Settecento: l’Assoluto, l’Unità, Dio, è non già un Ente che stia fuori e prima del mondo, ma il mondo stesso, della natura e della storia, nella sua possente vita; cioè, l’Assoluto non è una realtà già fatta, ma è il senso, lo scopo di tutto il mutarsi del mondo. di tutto il Divenire: “Dell’Assoluto devesi dire che esso essenzialmente Risultato, che solo alla fine e quello che è“. In questa concezione unitaria, le classiche dicotomie e alternative vengono a cadere: l’Assoluto è Pensiero e Realtà (unità di entrambe, che Hegel chiama Idea), soggettività e oggettività, essere e non-essere (divenire). In esso non c’è contrasto tra essere e dover-essere, reale e ideale, materia e ragione: “Tutto ciò che è reale ê razionale, tutto ciò che è razionale è reale“. Perciò la struttura della realtà è dialettica e storica (e questi sono i due aspetti del pensiero hegeliano che passeranno poi nella concezione marxistica): dialettica perchè in essa vige la legge degli opposti, per cui gli elementi del reale entrano in contraddizione, e dalla contraddizione nasce quella feconda lotta che genera sempre nuovi elementi superiori, nei quali si risolvono le contraddizioni precedenti (e se no aprono delle nuove); storica perchè la legge dialettica, che secondo Hegel è tipica della storia umana, vige in tutto il divenire dell’universo.
Queste concezioni metafisiche vengono da Hegel applicate anche alla politica, o meglio alla filosofia dello Stato, la cui più celebre esposizione è quella contenuta nella Filosofia del Diritto (1821). Come nella sua filosofia, anche nella politica di Hegel confluiscono le varie correnti del pensiero moderno: liberalismo. assolutismo e democrazia, rivoluzione e restaurazione. In Hegel è molto vivo il sentimento, in sé reazionario ma non privo di molta serietà politica, dell’assolutezza e .anzi divinità dello Stato, per lui vero “Dio in terra”. Ma come il suo Dio è il risultato di tutto il divenire del mondo, così per lui lo Stato è veramente tale e degno di tal nome (cioè assoluto e divino) solo in quanto rappresenta ed esprime, mediante la legge e 1’autorità, il risultato della storia di un popolo. Perciò egli oppone alla politica dei Giacobini, fondata sull’idea del contratto, la concezione dello Stato come un Tutto organico in cui si incarna una realtà – la realtà storica del popolo – superiore ai singoli individui e ai singoli gruppi di interessi, superiore alla stessa società civile in cui invece Rousseau aveva tentato di risolvere la realtà statale.
Ma si oppone ancora più vivamente e nettamente (del resto in gioventù aveva nutrito molte simpatie per la Rivoluzione francese), a reazionari come Kal Ludwig von Haller (Berna, 1º agosto 1768 – Soletta, 8 dicembre 1854), che abbassavano lo Stato a mera “autorità per diritto divino”, dispotica, ad ordine che si deve imporre ai sudditi dall’alto, e quindi privo di qualsiasi contenuto morale. Lo Stato per Hegel non è mera potenza od ordine trascendente, ma ordine razionale che non deve venir subìto dai sudditi, ma sentito come loro stessa volontà generale (razionale). Lo Stato quindi ha una dignità morale, e la sua legge è legge morale. Hegel non accetta neppure la concezione kantiana della moralità come mera legge interiore della coscienza: nello stato e nella sua legge si esprime l’elicità del popolo, la quale ha, sì, un aspetto interiore, vive nella coscienza dei singoli, ma si manifesta obiettivamente come legge esteriormente necessaria – come legge della famiglia, come regole di convivenza e di diritto nella società civile, e finalmente come legge e autorità dello Stato, in cui si risolvono e si perfezionano le leggi della famiglia e le regole del diritto.
E questa la concezione hegeliana dello Stato etico (1), dello Stato che è, sì, assoluto, monarchico e cristiano, ma in cui si incarna o si dovrebbe incarnare la volontà storica del popolo. Per comprendere meglio questa teoria, esaminiamo come in essa si vengano a configurare i rapporti tra individui, classi sociali e Stato. Gli individui, spinti dai loro bisogni naturali, da una parte creano la famiglia (padre, madre e figli) fondata su di un affetto naturale ma anche su di una comunità di interessi economici (la conservazione e incremento del patrimonio familiare); dall’altra parte, per la necessità del lavoro e in conseguenza della divisione del lavoro stesso tra i vari cooperatori alla produzione, creano la società civile o “borghese “, divisa in classi o ceti sociali, ove regnano rapporti del tutto esteriori, contrattuali e patrimoniali. La società borghese, quando sorge, mette in crisi la solida eticità della famiglia, -a quale rischia di dissolversi nei meri rapporti di interesse della società borghese stessa. Questa contraddizione tra la naturalità della famiglia e l’esteriorità della società borghese è risolta nello Stato, il quale, sovrapponendosi con la sua legge ed autorità agli individui, alle famiglie e ai gruppi sociali, istituisce una nuova realtà che è superiore agli individui, ma salva e l’interiorità dei rapporti umani che era propria della famiglia, e il giuoco di interessi esteriori ed obiettivi che è proprio della società borghese.

Tale concezione è, soprattutto nei particolari che ho tralasciato, estremamente reazionaria e doveva servire a giustificare la politica dello Stato più reazionario d’Europa, il Regno di Prussia. Lo Stato-Dio tutto ingoia e toglie la libertà propria del liberalismo dello Stato borghese, senza abolirne le ingiustizie e i privilegi, anzi “santificandoli” e rendendoli definitivi (questo aspetto sarà messo in rilievo da Marx nella Critica della Filosofia del diritto di Hegel). Ma d’altra parte la teoria hegeliana coglie e in qualche modo giustifica filosoficamente la profonda aspirazione della società europea a superare lo Stato liberale con i suoi limiti e le sue contraddizioni. Non però per ricadere nello Stato tedesco-cristiano (come si illudeva Hegel), bensì per giungere allo Stato socialista, organico e progressivo, storico e popolare nelle sue basi e nelle sue stesse ragioni di vita. Hegel dimostra molto bene che lo Stato di oggi non è l’effetto del capriccio di qualche potente, ma il risultato di un lungo e necessario cammino storico della società; non sarebbe però difficile dimostrate applicando la sua stessa logica, che anche lo Stato di domani non sarà l’effetto del capriccio di qualche sovversivo, ma il risultato di un necessario cammino storico della società…
Per questo, dopo la sua morte, la scuola hegeliana si divise in due ali, una destra reazionaria e clericale, e una sinistra democratico-borghese (con Ruge) o socialista (con Marx ed Engels). Due ali che svilupperanno separatamente i due aspetti contraddittori: reazione monarchica e rivoluzione al di là della borghesia, che erano stati fatti convivere in uno stesso sistema filosofico-politico del grande ma ambiguo genio di Hegel.

(1) Non va dimenticato il banale e in buona parte abusivo sfruttamento che ne fecero gli ideologi del fascismo.

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