EL GRECO (Domínikos Theotokópoulos) – La vita

Ritratto di un uomo vecchio, autoritratto di El Greco (1604)

.

EL GRECO

.

Domínikos Theotokópoulos nacque a Candia nell’isola di Creta l’anno 1541: entrambi i dati, determinabili sulla base di sicuri indizi, sono confermati dallo stesso artista, che, nel 1606, denunciava l’hedad de sesanta y cinco años  e che non solo amò accompagnare la segnatura apposta su alcuni dipinti con l’indicazione Chrés (cretese; come nella Guarigione del cieco della Pinacoteca di Parma, nell’Allegoria della Santa Lega di El Escorial, eec.), ma, più puntualmente, comparendo una volta in qualità di interprete davanti al tribunale dell’Inquisizione a Toledo, per un processo contro un greco, si dichiarò “natural de la ciudad de Candia”. Se poco ci è dato sapere intorno alla sua famiglia, che dovette, comunque, essere di religione cattolica (tra l’altro: il corrispondente ortodosso del nome Domenico è Ciriaco) e, socialmente, appartenente ai quadri di piccola borghesia impiegatizia al servizio della Serenissima – il padre, Jorghi, nel 1556 era già morto; il fratello, maggiore di dieci anni, Manusso, svolgeva attività di daziere della Repubblica veneta -, quasi nulla ci è noto degli anni trascorsi dal Theotokópoulos in patria. Possiamo pensare, con buone ragioni, che si fosse messo, per tempo, a bottega presso qualcuno dei numerosi pittori attivi nell’isola, acquisendo rapidamente una elevata qualificazione professionale, giacché, secondo quanto hanno provato recenti indagini archivistiche (Mertzios, 1962), il 6 giugno 1566 potrà sottoscriversi, comparendo come testimonio la un atto stipulato dal notaio Michele Marás, “maistro Menegos Theotokópoulos sgourafos” (pittore).
Di lì a poco, il giovane, ma certo non più oscuro artista, si imbarcava, forse, su una delle navi destinate a trasportare mosto e moscato a Venezia, dove è probabile che già si trovasse nel 1567 se, in accordo con la maggior parte degli studiosi, possiamo identificarlo con il “valente giovine… discepolo” di cui parla Tiziano in un lettera a Filippo Il del 2 dicembre di quell’anno. In effetti, che Domenico, appena giunto tra le Lagune, si sia posto accanto al Vecellio, è confermato da attendibili ed autorevoli fonti contemporanee: talché si è, a buon diritto, indotti a credere che la partenza da Creta non sia stata determinata da un’improvvisa e avventurosa decisione, ma sia stata, di contro, meditata; le che, insomma, il viaggio alla volta di Venezia fosse garantito da una raccomandazione al maestro prestigioso, procuratagli da pittori cretesi attivi nella capitale, quali Marco Bathà o Giorgio Scordilis o, più verosimilmente, dal fratello Manusso, che aveva una posizione di evidenza nella burocrazia, e doveva essere legato, per tale tramite, a circoli influenti della Repubblica.
Molto significativo è il fatto che il nome del Theotokópoulos non figuri mai nei registri della Comunità di San Giorgio, che raccoglieva, intorno alla metà del secolo, circa quattromila greci (la gran parte, dunque, di quelli presenti a Venezia), tra cui molti artisti, attivi soprattutto per quel particolare pubblico: ciò che poi suggerisce l’ipotesi – quali che siano stati i modi del rapporto con Tiziano: alunnato vero e proprio o, solo e più credibilmente, libera frequentazione della bottega – di una attività pittorica svolta in proprio dal giovane cretese, nei giri di committenze, e per il mercato precisamente veneziani. Il soggiorno lagunare di Domenico non fu, in ogni caso, molto lungo; giacché nel 1570 egli appare a Roma, dove ha modo di farsi conoscere ed apprezzare dal miniaturista croato Giulio Clovio, che, il 19 novembre, indirizza al suo protettore e mecenate, il cardinale Alessandro Farnese, in quei giorni a Viterbo, una lettera di raccomandazione. La supplica venne senza dubbio accolta e, nell’ambito dei circoli farnesiani, il Theotokópoulos ebbe modo sia di avvicinare esponenti tra i più in vista del mondo manieristico romano, arricchendo, in un ordine preciso di disposizioni, la propria esperienza culturale, sia di far valere una personalità di uomo e di artista già singolare e sorprendente.
Rammenta, infatti, il Mancini (circa 1619) – il quale designa Domenico col soprannome di il Greco, che lo accompagnerà dal soggiorno romano per tutta la vita e che resterà a meglio designarlo anche presso i posteri – che il pittore, “in un tempo che non v’erano [nell’Urbe] molti huomini e quelli di maniera non così resoluta né così fresca come pareva la sua, pigliò grande ardire”, accresciuto poi dalla fortuna che le sue cose sembravano ottenere presso i committenti: al punto da esclamare, davanti al Giudizio michelangiolesco, sulla cui decenza fervevano le discussioni, che “se si buttava a terra tutta l’opera l’havrebbe rifatta con honestà… non inferiore a quella, et di buona depectione”.
È impossibile precisare quanto a lungo il Greco si sia trattenuto a Roma: non più di due o tre anni, secondo una congettura fondata su puri indizi ma opportunamente accolta dalla quasi unanimità della critica (a parte i dubbi dell’Arslan, 1958), per cui il maestro sarebbe tornato a Venezia intorno al 1572. Sta di fatto che il 2 luglio 1577, Domenico appare in Spagna, ormai stabilito in quella Toledo, “patria elegida”, ove risiederà stabilmente sino al termine della sua vicenda umana. Le ragioni del nuovo, e definitivo spostamento, anche, ci restano oscure: ed è soltanto un’ipotesi, sia pure non avventata, ma di contro per qualche verso ben motivata, ritenere che egli si sia mosso, inizialmente, tra 1575 e 1576, «per lavorare alla corte di Filippo II, forse raccomandato dallo scultore Pompeo Leoni, che egli aveva ritratto, o da Fulvio Orsini, bibliotecario dei Farnese, o dal vecchio maestro Tiziano (ciò che meglio ed ulteriormente appoggerebbe l’altra congettura di un precedente rientro a Venezia); e che la mancata fortuna in quell’ambito l’abbia, poi, sollecitato ad appartarsi in un centro provinciale, d’altronde ricco di vita intellettuale: la cui dimensione dovette ben presto avvertire congeniale; e insostituibile. La città, capitale politica del regno sino al 1561, ma orgogliosa del titolo, rimastole, di “Ciudad imperial y coronada”, si presentava in una situazione di grande suggestione, che non aveva mancato di agire su alcuni tra gli stessi più illustri esponenti della cultura spagnola contemporanea, i quali, per un verso o per l’altro, più o meno lungamente, vi si trovarono presenti, tra gli ultimi decenni del Cinquecento e l’avvio del Seicento: Quevedo e Cervantes, Lope de Vega e Tirso da Molina, Gongora e Paravicino, Santa Teresa.

“Oh peñascosa pesadumbre, gloria de España y luz de sus ciudades…” canta il Cervantes, in un passo famoso; e Lope gli fa eco: “Toledo, ciudad famosa, corona y lustre de España”.

.


ALTAROLO – Trittico di Modena – Firmato: CHEIR DOMENIKOU
Domínikos Theotokopulos, detto El Greco (Candia, 1541 – Toledo, 1614) 
(all’interno, da sinistra: Adorazione dei pastori, 
Allegoria del Cavaliere cristiano e Battesimo di Cristo)
(all’esterno, da sinistra: Annunciazione, 
Veduta del Sinai e Adamo ed Eva dinanzi al Padreterno)
Modena, Galleria Estense
Tempera su tavola, 37 x 23,8 (i pannelli centrali) –  cm 24 x 18 (i pannelli laterali)

.

È certo arduo tentare di recuperare nella sua concretezza storica e nelle sue oggettive motivazioni, l’indiscutibile e fascinoso “secret de Tolede”, che cinquant’anni or sono incantava, sollecitandone i più effusi ma mistificanti abbandoni, il decadentismo simbolistico di Maurice Barrès, non privo di epigoni (magari scaltriti, e, s’intende, vestiti a nuovo, come Jean Cocteau col suo Le Demi-Dieux: Le Greco, 1943), e la cui evidenza pare consistere in una capacità di conciliare, in una singolare e strana misura, a suo modo unitaria, i contrasti, in apparenza almeno, più stridenti e aspri: la ricchezza economica prodotta dall’attività imponente delle industrie della seta e delle lame e le folle miserabili degli immigrati galleghi, asturiani, moreschi; il fervore culturale dell’Università, tra le più prestigiose d’Europa, e delle numerose accademie artistiche e letterarie e l’attività implacabile del tribunale dell’Inquisizione; le fiamme paurose degli “autos da fé” e le esplosioni gaie delle fiestas sulla Plaza Zocodover; le folle variopinte dei mercanti fiamminghi, francesi, e le processioni di cupa solennità; le memorie mudejares e la frenetica attività edilizia di gusto rinascimentale; le chiese sontuose e i tetri monasteri di clausura; le liete facciate di azulejos e i prospetti severi di pietra; e la terra secca della collina, su cui il blocco della città s’arrocca e lo scorrere lento del Tago a valle, intorno. Converrà, dunque, tentar di considerare, più avanti, la nuova situazione in cui il Greco si inserisce definitivamente, come il riflesso o il prodotto di una realtà strutturale, di cui l’artista stesso viene a partecipare, piuttosto che come lo sfondo, per quanto suggestivo ed efficace ai fini di belle “evocazioni”, da giustapporre all’indagine sulla attività di Domenico. Che, a partire proprio dal 1577, diventa ricchissima, impegnando il maestro sia come pittore, sia come architetto le scultore, e ci è, nel complesso, discretamente documentata da poche testimonianze contemporanee, e da numerose referenze d’archivio, abbastanza generose anche quanto a indicazioni sulle vicende propriamente biografiche. Apprendiamo, così, del crescente benessere realizzato grazie al lavoro assai ben retribuito, i cui proventi Domenico tende ad investire nell’acquisto di immobili: tra questi, l’abitazione, in cui si stabilisce e che rende ancora più confortevole con successivi ampliamenti, sita in posizione stupenda, affacciata al Tago (non coincidente, comunque, con l’attuale, cosiddetta, Casa del Greco), appare vasta e confortevole al confronto di quelle che sappiamo essere state le dimore di tanti artisti del tempo.

.

IL SALVATORE (1610-1614)
El Greco (Domínikos Theotokòpulos)
Museo El Greco – Toledo
Tela cm. 97 x 77

.

Da poco giunto in Spagna, il Theotokópoulos doveva essersi messo con una misteriosa doña Jeronima de las Cuevas, di rango sociale certamente elevato che, sembra, non volle sposare benché avesse dato al maestro, nel 1578, il figlio Jorge Manuel, teneramente amato e pure votato all’arte, che rimase sempre accanto al padre. La casa del pittore veniva quindi allietata dall’ingresso di Alfonsa de los Morales, sposa a Jorge Manuel, e dalla nascita del nipote Gabriel. La vita esterna del maestro non si segnala per episodi clamorosi o solo interessanti: qualche controversia con committenti, soprattutto in sede di definizione dei pagamenti, e con il fisco; pochissimi viaggi, e in un raggio modesto, forse a El Escorial e a Madrid nel 1595 o ’96 le nel 1600.
Risentì, durante gli ultimi anni, di una malattia, sulla natura della quale si è fin troppo, e spesso a sproposito, dissertato (un’affezione alla vista? accentuazione di tendenze paranoiche?): ma che, in sostanza, sembra aver tutt’al più ridotto una capacità lavorativa, che era stata in precedenza impressionante. Il 31 marzo 1614 il maestro dettava il testamento, in cui professa solennemente la propria fede nella “Santa Madre Iglesia de Roma” le dichiara amore e fiducia nel figlio Jorge Manuel, che appare il maggior beneficiario dei lasciti; poco dopo, il successivo 7 aprile, si spegneva, tra il cordoglio dei circoli colti toledani, attestato, tra l’altro, dai sonetti in memoriam del Paravicino e del Gongora.

Alcuni passi del testamento, due inventari dei beni posseduti dal maestro (redatti il 12 aprile 1614 e il 7 agosto 1621), pochi ricordi esterni fidati ci lasciano intendere che Domenico dovette essere di gusti semplici, addirittura severi, di sottile cultura letteraria e filosofica, amante della musica (teneva, a costo di gravi spese – rammenta il Martinez – “musicos asalariados par quando comía”), incline alla solitudine e, pure, conversatore felice e arguto. La dimora, vasta, era tuttavia quasi spoglia di mobili e di suppellettili (solo i libri, numerosi, e rivelatori di interessi larghi e raffinati, e i suoi dipinti: tra questi, giusta il Pacheco, 1649, “los originales de todo quanto habia pintado en su vida”, in minor formato); pochi, e selezionati tra gli esponenti della vita intellettuale e religiosa toledana, gli amici che la frequentavano; due le persone di servizio; salvo Jorge Manuel, nessuno stabile garzone o aiuto di bottega. Il ritratto più vero, ed inquietante, dell’uomo risale, forse, al soggiorno romano, e ci è stato affidato da Giulio Clovio, in una lettera in antico croato, ora conservata nella Biblioteca civica di Spalato e pubblicata dal Kehrer in “Kunstchronik und Kunstmarkt”,(1922):

“Andai a visitare… il Greco per fare con lui una passeggiata in città. Il tempo era bello, con un delizioso sole primaverile, che in tutti metteva allegrezza. La città aveva aria di festa. Quale fu la mia meraviglia, allorché entrai nello studio del Greco e vidi le imposte delle finestre chiuse in maniera tale che a malapena si poteva distinguere gli oggetti. Il Greco stava seduto su uno sgabello, senza lavorare e senza dormire. Egli non volle uscir con me, perché la luce del giorno turbava la sua luce interiore”.

.

艺术大师—格列柯| 作品欣赏_美术

San Giacomo il Maggiore (El Greco)

.

VEDI ANCHE . . .

EL GRECO (Domenico Theotokópoulos) – La vita

Domenico Theotokópoulos, EL GRECO – Vita e opere

IL SALVATORE – El Greco

CRISTO CROCIFISSO ADORATO DA DUE DONATORI – El Greco

SAN PIETRO E PAOLO – El Greco

IL RAGAZZO CHE SOFFIA SU UN TIZZONE ARDENTE – El Greco

SANTISSIMA TRINITÀ – El Greco

LA TRINITÀ – El Greco

SACRA FAMIGLIA CON SANT’ANNA – El Greco

ALTAROLO – Trittico di Modena – El Greco

INCORONAZIONE DELLA VERGINE – El Greco

LAOCOONTE – El Greco

.