CROCIFISSIONE DI SAN PIETRO – CONVERSIONE DI SAUL – Michelangelo

Crocifissione di San Pietro, 1542-50 – MichelangeloCittà del Vaticano, Palazzi Apostolici, Cappella Paolina, Roma
Affresco cm 625 x 662 
Negli affreschi della Paolina non à presente la natura ma soltanto un ripetersi di linee d’orizzonte: uno spazio senz’aria, pieno di una luce arida. E la storia non è raccontata con ordine, ma solo con un infittirsi e diradarsi dei gruppi in uno spazio innaturale, dato che non c’è

divario tra le figure in terra e quelle sospese nel vuoto. Sono quasi tutte in scorcio, non dando loro una maggiore profondità, ma quasi sottraendole allo spazio e restringendole nei contorni contratti. Lo scorcio teso, quasi una fuga all’orizzonte (ma vi corrisponde in alto lo scorcio del Cristo) del cavallo della Conversione, la figura rattrappita dell’uomo che scava il terreno per porvi la croce di San Pietro della Crocifissione.
Lo scorcio, infine, è qui l’equivalente del non-finito della scultura: le figure non si inseriscono nello spazio, ma neppure si isolano come cose-in-sé, anzi si, confondono, sbiadiscono in “quell’aria senza tempo tinta”: più che rappresentate sono evocate, ridotte a un contorno con una parvenza di colore. A loro volta i colori sono esangui, aspri e stridenti, formano un concerto
pieno di dissonanze volute, e il loro ritmo è fortemente irregolare, fatto di pause e riprese improvvise, come il movimento delle figure lungo le diagonali divergenti.

Conversione di Saul, 1542-50 – Michelangelo
Città del Vaticano, Palazzi Apostolici, Cappella Paolina, Roma
Affresco cm 625 x 661

La visione di Saul sulla via di Damasco si propone come l’estrema prova pittorica di Michelangelo (benché alquanto manomessa da successivi interventi) e in essa emerge la definitiva opzione conseguente caduta di Saul fanno da contrappunto alla “caduta” verso la terra del Cristo, circondato da un turbine d’angeli stupiti e terrorizzati: la Grazia è improvvisa, irripetibile, indipendente dalla volontà; la ragione si piegava infine alla inappellabilità della rivelazione divina.
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Nella fase finale della propria attività, l’artista tese sempre più ad allontanarsi dalla figurazione, come egli stesso dichiarava in una sua poesia, raggiungendo nella scultura esiti sempre più antinaturalistici (dalla Pietà di Santa Maria del Fiore alla Vittoria di Palazzo Vecchio, manuale per la successiva scultura manierista di Bandinelli e Giambologna; fino all’astrazione della Pietà Rondanini dei Musei di Milano) e dedicandosi prevalentemente alla progettazione architettonica.
Nel 1542, mentre moriva il cardinale Contarini, protagonista del “riformismo” cattolico, e veniva istituito il Santo Uffizio, Michelangelo iniziò l’ultima impresa pittorica di grande respiro: gli affreschi della cappella Paolina. Infatti, se il Giudizio Universale era collocato nel luogo ufficiale della cristianità e corrispondeva al concetto dell’oratoria sacra, i due affreschi realizzati per la cappella privata di Paolo III rappresentarono la materializzazione di una lirica sacra e insieme la crisi definitiva della figurazione.
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Seguendo in certo modo l’impostazione del Giudizio, nella Conversione di Saul, Michelangelo amplificò il vuoto al centro del dipinto, e quindi accentuò l’effetto centrifugo con l’inserzione dello scorcio del cavallo imbizzarrito, quasi un pallido ricordo della Battaglia di Cascina, che si collega all’indefinito paesaggio di sfondo e ai gruppi di angeli in alto. L’azione si sposta di lato nell’audacissimo scorcio del Cristo piombante dal cielo e nella figura di Paolo, caduto a terra in una posa che risale all’invenzione di Raffaello nella Stanza di Eliodoro. Gli astanti e gli angeli, il paesaggio e la luce si allontanano per lasciare soli Dio e Paolo in un dialogo muto e violento al quale corrisponde una tavolozza grigia e terrosa, totalmente priva di qualsiasi compiacenza rappresentativa.
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Tra il 1546 e il 1550, Buonarroti portò a compimento la Crocifissione di San Pietro nella quale si palesa l’assenza di Dio, quanto era al contrario dirompente nella Conversione. L’alto orizzonte schiaccia verso il basso la scena affollata dove l’apostolo è solo davanti alla morte, senza certezza alcuna di un’altra vita; il silenzio domina l’intera composizione, il cui fulcro è la figura rannicchiata dello sterratore, ancora una volta un prestito da Masaccio, che riprende bilanciandola la curvatura del corpo di Pietro, il quale pare aver quasi un moto di ribellione al destino segnato.
Il senso altamente drammatico di questo estremo dipinto fu colto nella sua interezza solamente un cinquantennio più tardi, quando Caravaggio dipinse il Martirio di San Pietro per la chiesa romana di Santa Maria del Popolo, nel quale la tragedia individuale diviene la tragedia dell’umana condizione.
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Negli estremi anni della sua vita Michelangelo si dedicò completamente alla progettazione architettonica: dal compimento della fabbrica di San Pietro, con la gigantesca cupola che partendo dagli schemi brunelleschiani presenta un andamento centrifugo, materializzando nel marmo il movimento del Giudizio, a Santa Maria degli Angeli, ricavata dai giganteschi ambienti delle terme di Diocleziano, nella quale assume la posizione di “non intervento”, una definitiva opzione contro la possibilità di rappresentare e di trasformare la realtà visibile.
La sempre più intensa problematica religiosa, la vecchiaia, la crisi dei valori estetici legano Michelangelo al circolo cattolico riformista di Vittoria Colonna, per la quale, negli anni intorno al 1545, abbozzò e forse realizzò una Crocifissione, di cui restano alcuni straordinari studi per le figure di Maria dolente e di San Giovanni: filiazioni dirette delle terribili figure del Giudizio ed isolate, senza la luce della grazia, come nella cappella Paolina.
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