FRANCESCA DA RIMINI – Antonio Petito

Antonio Petito
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FRANCESCA DA RIMINI   

Antonio Petito

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PERSONAGGI
Un Inglese
Un Signore
Un Suggeritore
D. Asdrubale, artista comico
D. Cutenella
D. Schiattamorton
Pulcìnella, butta fuori del teatro

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PERSONAGGI DELLA TRAGEDIA
Francesca
Guido
Paolo
Lanci otto
Un Paggio
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MUSICI
Un primo violino
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Antonio Petito (Napoli 1822-1876) non va considerato ‘scrittore’ nel senso comune e tradizionale del termine: fu prima di tutto attore popolarissimo, a sua volta figlio di un attore (Salvatore Petito), noto per le interpretazioni di Pulcinella. Antonio calcò le scene del teatro San Carlino di Napoli per la prima volta nel 1854, e vi rimase poi ventitré anni, diventando un idolo amato e seguito da un pubblico vasto. Attore, quindi, prima di tutto: ed anche le opere che ha scritto e che ci ha lasciato risentono di questa impostazione ‘parlata’, sono stese con la mentalità di chi pensa alla comicità della battuta quale scaturirà nel teatro, grazie al vivo ed immediato contatto con il pubblico. Il repertorio di Petito è legato alla tradizione del teatro popolare napoletano ed alla maschera di Pulcinella (impersonante comicamente, ma con una sostanza drammatica, il sottoproletario affamato e ‘arrangione’); è composto di commedie farsesche, in cui il riso del pubblico scaturisce dai gesti, dalle battute, dagli equivoci, dai battibecchi tra i personaggi: comicità subito evidente ed elementare, immediatamente comunicativa, secondo una tradizione popolare che risale a tempi remoti. Le farse e le commedie sono in un dialetto napoletano che, negli autografi di Petito, è spesso di difficile lettura. Si pensi che l’attore era appena capace di leggere e scrivere, e stendeva le sue opere in una lingua assai approssimativa. La scrittura, per Petito, è soltanto appoggio mnemonico all’uso scenico: le battute, che nel testo risultano difficili, nella recitazione provocano invece irresistibilmente la risata, accompagnate dalla ricca mimica richiesta dalla situazione.
Anziché dare qui il piccolo campione costituito da una o due scene di qualche commedia napoletana di ambiente, nel difficile dialetto che si diceva, con i conseguenti problemi di comprensione da parte di tanti lettori di altre regioni d’Italia, abbiamo scelto un breve atto unico di tipo parodico, in cui vi è la presenza della lingua italiana, anche se, come vedremo, si tratta di un particolare tipo di italiano.

La parodia, è noto, è il rovesciamento comico di qualche cosa che normalmente viene ritenuto serio e tragico. In letteratura si ha parodia quando un tema ben noto od un’opera che tutti conoscono come ‘seria’ vengono utilizzati da un altro scrittore allo scopo di far ridere. Parodia è dunque un ‘ribaltamento’, una inversione del fine dell’opera da cui si parte. Petito, in questo atto unico, fa la parodia di un motivo letterario tra i più famosi, la storia tragica di Francesca da Rimini. La vicenda di Francesca è raccontata per la prima volta da Dante nella Divina Commedia: è la vicenda di due nobili amanti del 1200, Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, i quali vengono sorpresi da Gianciotto (o Lanciotto) Malatesta, legittimo marito di Francesca, e uccisi. La trama, ridotta all’elementare svolgimento dei fatti, è una semplice storia di tradimento coniugale punito. Nella letteratura, dove il tema ha destato interesse e commozione negli autori, l’episodio è stato sovente letto come emblema di un amore sincero, reso impossibile, ed anzi destinato ad una conclusione tragica, a causa della crudeltà di Gianciotto (raffigurato come brutto, iracondo e perfido).

PAOLO E FRANCESCA (1814-1819)
Jean-Auguste-Dominique Ingres
Olio su tela cm 35 x 28
Chantilly, Musée Condé

La storia di Francesca e di Paolo fu trattata spesso in letteratura e nell’arte figurativa: nell’Ottocento Silvio Pellico scrisse una tragedia con quel titolo (1815), mentre molti presero il motivo a soggetto di opere liriche (cantate e musicate). Si trattava quindi di una vicenda molto nota, ben conosciuta dal vasto pubblico, il quale era al corrente della triste fine dei due amanti e sapeva già che quella storia era legata a sentimenti dolorosi e pietosi, lacrimevoli.

Proprio su queste attese e conoscenze del pubblico gioca la parodia di Petito, il quale immagina un teatro dove, al momento in cui deve andare in scena la Francesca, vengono a mancare gli attori, impediti da una serie di liti sentimentali degenerate in zuffa. La prima attrice, che deve impersonare Francesca, scopre il proprio fidanzato in compagnia di alcune ballerine; questi, per parte sua, trova lei in compagnia dell’attore che deve impersonare Paolo. I due rivali si affrontano, l’uno con la spada, l’altro con la pistola; ne nasce un parapiglia. La compagnia si scioglie; la recita non può più avvenire. Il pubblico, intanto, attende che si alzi il sipario, e protesta perché è stanco di aspettare. È Pulcinella ad annunciare alla platea quanto è accaduto, ed è lo stesso Pulcinella (che tradizionalmente deve sapersi arrangiare nelle situazione difficili) a trovare il modo di allestire lo spettacolo anche senza gli attori: lui stesso, travestito da donna, farà la parte di Francesca; prenderà tra il pubblico Paolo; Gianciotto lo manderà a chiamare tra gli avventori del caffè che sta di fronte al teatro. Naturalmente i nuovi attori non sanno la parte, e devono inventare, imbastendo gesti e battute grossolane (esagerazioni della lingua del teatro e del melodramma) che si adattino grosso modo alla storia dei due celebri amanti. Nella semplice lettura del testo, molto certo andrà perduto della comicità scenica originale: ma si immagini una compagnia di attori napoletani scatenati, e si vedrà che Petito è uno straordinario uomo di palcoscenico, e che il canovaccio da lui costruito ha una sua tenuta.

Intanto si noti che la parodia, l’ironia, la comicità, colpiscono a vari livelli: per prima cosa c’è la grossolana e volgare storia sentimentale causa della lite tra gli attori, la quale è una parodia, perché contrappone la vicenda degli attori, proposta come reale (una chiassata), alla nobiltà della trasfigurazione tragica. Poi c’è la caricatura del pubblico, che, rozzo ed imbestialito, vuole ad ogni costo vedere lo spettacolo, od almeno le parti più importanti di esso. Si noti la figura dello spettatore inglese (in visita a Napoli), il quale si esprime in un ridicolo italiano infarcito di parole più o meno straniere. Infine c’è la parodia vera e propria (forse la parte meno sottile), cioè la recita imbastita da Pulcinella e compagni, che si conclude anch’essa in una chiassata, dopo essersi svolta con battute ridicole ed altisonanti, che ricalcano il linguaggio dell’opera lirica.
Le opere di Petito conoscono oggi una fortuna crescente: sono state ristampate e vengono anche portate in teatro da compagnie d’avanguardia. Ciò si spiega in parte con la fortuna odierna del `popolare’, ma anche con la vivacità di cui Petito è maestro. Si veda, a titolo di esempio, lo spostamento della scena dal palco all’intero teatro attuata nella parodia della Francesca da Rimini: Pulcinella, si vedrà, annuncia che la recita della tragedia non può avvenire, e questo annuncio, che è già finzione scenica, è simulato come vero: insomma, realtà e finzione si sovrappongono, e gli spettatori veri, tra i quali ci sono alcuni attori che si fingono spettatori, vengono coinvolti anche loro nella farsa, secondo un ideale di partecipazione che è oggi molto di moda tra i giovani teatranti. Nello stesso tempo, gli artifici che abbiamo descritti non solo non guastano in maniera cervellotica o intellettualistica la comunicazione tra attori e pubblico, ma anzi accentuano la comunicatività del testo, che può far ridere anche un bambino o il pubblico più incolto (per la mimica e i lazzi).
Ce n’è abbastanza per spiegare le legittime ragioni del ricupero moderno di questo autore.
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