IL PASSERO SOLITARIO – Giacomo Leopardi

IL PASSERO SOLITARIO

Giacomo Leopardi

La poesia paragona la vita del passero e quella del poeta, che sono simili; e i motivi – che sono invece diversi – per cui l’uno e l’altro conducono quella vita. Pur nell’architettura un po’ costruita e laboriosa, il componimento ha particolari bellissimi nella rappresentazione del paesaggio e dell’ambiente, e tocca note liriche profonde dove descrive la solitudine senza scampo dello scrittore, e l’amarezza e il pianto di quella. solitudine.

D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle. (1)
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core. (2)

(1) dall’alto (“vetta”) di una antica torre, passero solitario, canti (“cantando vai”) rivolto alla. campagna,  fino alla sera e l’armonia (del tuo canto) si diffonde (“erra”) per questa vallata.

(2) tutt’intorno riluce la primavera (“brilla nell’aria”) e verdeggia nei campi (“esulta”, di colori, di verde) così che il cuore si intenerisce al vederla.

Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore. (3)
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore. (4)

(3) odi le greggi belare, muggire gli armenti; gli altri uccelli, felici, gareggiano in mille voli per il cielo sereno (“libero”, sgombro da nuvole), festeggiando null’altro che la primavera (“il lor tempo migliore”, giovinezza della vita e della natura).

(4) tu, pensoso (mesto, malinconico) e appartato, osservi (“miri”) il tutto; non t’importa (“non ti cal”) dei compagni, dell’allegria, dei voli, sfuggì ai giochi (“schivi gli spassi”): canti, e trascorri (“trapassi”) così il momento migliore (“il più bel fiore”) dell’anno e della tua vita (cioè la primavera).

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano; (5)
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera. (6)
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa. (7)

(5) ohimé, quanto è Simile al tuo il mio modo di comportarmi. Io non curo, e non so nemmeno il perché (“io non so come”) gioia e divertimento (“sollazzo e riso”); né i dolci compagni (“dolce famiglia”) della giovinezza (“novella età”), né curo te, amore, che sei fratello (“german”) della giovinezza e amaro rimpianto (“sospiro acerbo”) della vecchiaia (“de’ provetti giorni”), anzi quasi fuggo lontanoda loro (cioè dal riso, dai compagni, dall’amore).

(6) quasi solitario ed estraneo (“romito” e “strano”) al luogo dove son nato, trascorro la primavera (la giovinezza) della mia vita (“del viver mio”).

(7) si usa festeggiare nella nostra cittadina (“borgo”) questo giorno, che ormai volge al tramonto. Senti per l’aria serena un suono di campane (“di squilla”), senti un ripetuto (“spesso”) tuonare di fucili (“ferree canne”, ma può intendersi anche fuochi di artificio) che rimbomba lontano di villaggio in villaggio

Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra. (8)
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo (9): e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno. (10)

(8) la gioventù del luogo, tutta vestita a festa, lascia le case e affolla le strade: guarda, è guardata e di questo si rallegra.

(9) io, solitario, uscendo verso la campagna dalla zona più appartata del paese (“rìmota parte”) rinvio (“indugio”) ad altro tempo ogni divertimento e gioco.

(10) e intanto il mio sguardo, disteso nell’aria luminosa (“aprica”) è ferito dal sole che, cadendo si dilegua (si nasconde) tra i monti lontani e sembra che dica (col suo scomparire) che anche la bella gioventù tramonta.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza. (11)
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso? (12)
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro. (13)

(11) tu, solitario uccellino, giunto al termine della tua vita. così come ha segnato il destino (“che daranno a te le stelle”) certo non ti dorra del modo in cui sei vissuto (“del tuo costume”) poiché ogni vostra (riferito ai passeri) inclinazione (o desiderio) è effetto dall’istinto (“di natura è frutto”).

(12) io invece, se non ottengo di evitare la detestata soglia della vecchiaia, quando questi occhi non parleranno più al cuore degli altri (“mnuti”) e il mondo per loro diverrà vuoto e il domani più tetro e noioso dell’oggi; che penserò allora di questa mia volontà (“voglìa”, s’intende: di solitudine). Che penserò di questi miei anni, di me stesso?

(13) certo me ne pentirò e spesso, ma sconsolato (ossia senza possibilità di consolazione) penserò al passato (“volgerommi indietro”).

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