A SILVIA – Giacomo Leopardi

A SILVIA

Giacomo Leopardi

Affido la presentazione di questo canto bellissimo, alle parole di un insigne storico della letteratura italiana, Natalino Sapegno: “Tra le poesie del periodo più felice di Leopardi – che tutte riprendono e variano con sempre nuove modulazioni un identico tema (la rievocazione intenerita della giovinezza. perduta o, che è lo stesso, della sognata felicità; il dramma dell’arido vero che è venuto a sconvolgere e disperdere quella pienezza di affetti e di sogni, e la riflessione sull’infinita miseria e nullità della vita umana) – “A Silvia” è quella che più di tutte condensa quel tema in un’immagine elevata a funzione di simbolo.
La sorte crudele della fanciulla, popolana morta nel fiore degli anni e il destino del poeta troppo presto privato del conforto della speranza, si svolgono paralleli e concordi, perché entrambi affiorano da una medesima sostanza di commosse memorie e vivono in una atmosfera lirica. Silvia è quasi certamente Teresa Fattorini, figlia di un cocchiere
di casa Leopardi, morta di tisi a 21 anni nel 1818; ma nella canzone, composta dieci anni più tardi, il fatto di cronaca è trasfigurato poeticamente”. .

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi? (1)

(1) Silvia, ricordi ancora quell’epoca della tua vita terrena (“mortale” sta per destinata alla morte) quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi ridenti e schivi (“fuggitivi”, modesti) e tu gioiosa e pure trepidante stavi per varcare la soglia della giovinezza?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno. (2)

(2) le stanze silenziose e le strade circostanti risuonavano del tuo continuo (“perpetuo”) cantare, quando sedevi intenta ai lavori domestici (la tessitura), felice per il dolce futuro che vedevi nella tua mente. Era il maggio odoroso (l’aria profumata della primavera) e tu solevi così trascorrere (“menare”) la tua giornata.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela. (3)
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. (4)
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

(3) io, tralasciando talora i miei studi leggiadri e le sudate carte (alcuni sogliono distinguere in questo verso gli studi poetici – “leggiadri” – e quelli filologici – “le sudate carte” – ma probabilmente è una distinzione arbitraria. Sia “leggiadri” che “sudate” possono riferirsi allo studiare in sé, cosa affascinante e però faticosa), sui quali si consumava (“si spendea”) la mia giovinezza (“il tempo mio primo”) e la miglior parte di me stesso, ascoltavo dai balconi (“veroni”) della casa paterna (“paterno ostello”) il suono della tua voce e quello che la tua mano veloce produceva nel tessere con fatica la tela.

(4) contemplavo il cielo sereno, le vie illuminate dal sole (“dorate”); gli orti e da una parte (“quinci”) il mare e dall’altra“ (“quindi”) il monte.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato! (5)
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura. (6)
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi? (7)

(5) la parola non può esprimere (“lingua mortal non dice”) quello che sentivo nel cuore. Che pensieri soavi, quali speranze, che palpiti (“cori”) o Silvia mia! Come (“quale”) felice ci appariva la vita umana, il destino.

(6) quando ricordo quella speranza così grande, un dolore (“affetto”) mi opprime, acerbo, senza possibilità di conforto (“sconsolato”) e torno a dolermi della mia vita sventurata.

(7) o natura, perché non mantieni ciò che prometti allora (“allor”, in giovinezza). Perché inganni così interamente i tuoi figli?.

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore. (8)

(8) tu, tenera fanciulla (“tenerella”) motivi, combattuta e vinta da un male occulto, chiuso in te, prima che l’inverno inaridisse le piante (cioè in autunno). E non raggiungevi il fiore dei tuoi anni (la piena giovinezza); non ti rallegrava (“molceva”) il cuore la dolce lode (il sentir lodare) ora dei tuoi capelli neri (“negre chiome”), ora degli sguardi pudichi (“schivi”) e innamorati; né ti è stato dato di parlar d’amore con le tue compagne, nei giorni di festa.

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza (9). Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti? (10)
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano. (11)

(9) allo stesso modo (“anche”) poco dopo (“fra poco”) moriva anche la mia dolce speranza; anche alla mia vita (“agli anni miei”) il destino (“i fati”) negò la giovinezza.

(10) ah come sei passata (cioè caduta) o speranza, cara compagna rimpianta (“mia lacrimata speme”) della mia fanciullezza. Questo dunque è quel mondo (che io sognavo)? queste le gioie, le imprese (“opre”), il futuro (“gli eventi”) di cui tanto abbiamo parlato insieme? Questo è dunque il destino dell’umanità?

(11) al primo contatto con la realtà (“all’appari del vero”) tu, o misera (si riferisce a speranza) cadesti e con la mano indicavi allontanandoti la morte inesorabile (“fredda”) e una tomba vuota (“ignuda”).

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