MANZONI E LEOPARDI NELLA POLEMICA ROMANTICA

MANZONI E LEOPARDI
NELLA POLEMICA ROMANTICA

Di ciò che stava succedendo in Italia intorno ai 1820 giungeva l’eco anche fuori: in Germania, per esempio, proprio là da dove la “audace scuola boreale” si era diffusa in tutta Europa. E là ci si stupiva dell’accanimento con cui gli intellettuali italiani si accapigliavano, scambiandosi scritti teorici, invece di competere praticamente con le opere. Nella sua olimpica saggezza faceva questo rilievo Wolfgang Goethe, il quale – l’anno stesso in cui i romantici milanesi avrebbero fatto uscire Il Conciliatore – sul giornale che egli stampava a Stoccarda, scriveva: “Romantico? Questa voce strana per le orecchie italiane muove da qualche tempo gran rumore in Lombardia e particolarmente a Milano. Il pubblico si divide in due partiti che si stanno incontro in ordine di battaglia, e mentre noi tedeschi ci serviamo tranquillamente dell’aggettivo romantico, quando ne abbiamo occasione, indicano gli italiani due sette irreconciliabili con le denominazioni di romanticismo e di classicismo. Presso di noi la contesa, se pure esiste, essendo condotta più praticamente che teoricamente, i nostri poeti e scrittori avendo dal canto loro il favore dei contemporanei, né mancando di editori, possiamo ora farci tranquilli spettatori della fiamma che abbiamo accesa, e che si estende al di là dell’Alpi. La città di Milano è ottimamente adatta a servir da campo a questa pugno, perché ivi più che in altro luogo d’Italia trovasi riunito buon numero di letterati e di artisti, i quali in mancanza di discussioni politiche, cercano doppio interesse in letterarie contese”.

Giusta l’osservazione di Goethe sulla “letterarie contese in mancanza di discussioni politiche”; giusta l’implicita accusa ai letterati italiani di non creare, come gli artisti tedeschi, delle opere, poesie, romanzi, drammi? Fino ad un certo punto.

Certo, nell’Italia della Restaurazione, occuparsi di questioni politiche era ben difficile; dopo il crollo napoleonico e il nuovo assetto dato alla penisola, sotto l’occhio vigile della Santa Alleanza, nei primi anni ci fu stasi e disorientamento: i migliori, come Ugo Foscolo, andavano in esilio, altri si acconciavano a tirar avanti, occupandosi dei loro studi. Ma poi ci fu presto la ripresa: Il Conciliatore ne fu il prima segno. Quasi tutti i suoi redattori, da una posizione di insofferenza e di ribellione alla vecchia cultura, all’aborrito classicismo, erano presto scivolati nella cospirazione politica.

Quanto poi alle opere… Non consapevolmente romantiche, forse; ma essa già c‘erano. I loro autori, cioé, non le avevano scritte sapendo chiaramente di fare delle opere d’arte romantiche; ma esse ben lo erano, o per lo meno alle idee e ai sentimenti romantici diffusi nell’ambiente colto italiano esse si ispiravano.

Guardiamo alle date. Tornato da poco in Italia da un lungo soggiorno a Parigi, rientrato nella sua Milano portando seco la fama della sua “conversione” al cattolicesimo, già noto nel mondo letterario. Alessandro Manzoni, trentenne, pubblica, nel 1815, quattro Inni sacri, in cui alcuni dei temi più ardui del cattolicesimo vengono poeticamente tradotti in versi quasi dimessi, semplicissimi. Versi classici? Assolutamente no: è il linguaggio comune del credente, è il sentimento religioso che vi si esprime direttamente, senza fronzoli retorici, senza abbellimenti pomposi. Il cristianesimo è profondamente sentito come un messaggio di fraternità, di uguaglianza, di giustizia per tutti gli uomini.
A parte altre considerazioni, che mi verrà fatto di presentare quando parlerò dell’opera di Alessandro Manzoni, debbo qui aggiungere che il cristianesimo degli Inni sacri è il cristianesimo degli umili, dei poveri, dei sofferenti.

Qualche anno dopo, il Manzoni prende indirettamente parte alla polemica sul romanticismo, scrivendo una lunga Lettre a Monsieur Chauvet in cui sostiene che le tre famose unità aristoteliche (di luogo, di tempo, di spazio, ritenute dai classicisti assolutamente necessarie per scrivere una tragedia) sono ormai del tutto superate, e da bandire: e lo stesso anno, pubblica la sua prima tragedia: Il conte di Carmagnola, opera decisamente romantica. L’anno dopo, ecco l’ode 5 Maggio, ecco il Marzo 1821:

Soffermati sull’arìda sponda,
volti ì guardi al varcato Ticino,
tutti assorti nel nuovo destino,
certi in cor dell’antica virtù.
han giurato: non fia che quest’onda
scorra più tra due rive straniere:
non fia loco, ove sorgan barriere
tra l’Italia e l’Italia, mai più!

Come sono lontani da questi versi di così preciso impegno civile, le querimonie classicheggianti sulle glorie italiche tramontata, di cui ci si dilettava soltanto qualche decennio prima!

Ancora due date riguardanti il Manzoni : nel 1823 egli scrive una lunga lettera a Cesare d’Azeglio sul romanticismo, in cui spiega che, il romanticismo ha due parti: una negativa e una positiva. La parte negativa tende ad escludere l’uso della mitologia, l’imitazione servile dei classici, le regole fondate su fatti speciali, e non su principi generali, sull’autorità dei retori, e non sul ragionamento. La parte positiva consisteva nell’affermare che: “la poesia deve proporsi per oggetto il vero”, e deve “interessare il maggior numero di lettori”.

Sempre nel 1823, il 7 dicembre, Alessandro Manzoni mette la parola fine alla prima stesura dei Promessi Sposi. Ma nelle polemiche sul romanticismo troviamo il nome di un altro grande: di Giacomo Leopardi. Nel 1816, dalla sua Recanati, egli aveva scritto una lettera alla Biblioteca italiana che non fu pubblicata: era, in sostanza, un attacco piuttosto decisa a Madame de Staël e ai romantici, che poi il Leopardi riprende in un Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, due anni dopo. Il ragionamento del Leopardi era pressappoco questo: “la poesia è nata per i sensi, e farla praticare con l’intelletto, e strascinarla dal visibile (dalla natura) all’invisibile e dalle cose alle idee, e strasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale”, come fanno i romantici, è un errore.

Antiromantico, dunque, il Leopardi? Classicista? Non si può dirlo davvero. La sua opposizione al romanticismo nasceva dalla sua estetica ancora settecentesca, da un lato; dalla sua profonda passione, dalla perfetta conoscenza delle lettere greche e latine dall’altro. Ma si badi: tale conoscenza non aveva nulla a che fare con quella che potevano averne allora gli accademici, gli eruditi, acrimoniosamente classicheggianti. Il suo stesso atteggiamento verso i classici era profondamente nuovo, era comunanza appassionata di spiriti eletti, non ottusa o infeconda ammirazione.

Ma…ancora una data… 1819: il Leopardi scrive L’infinito. Chi dei poeti militanti sotto le insegne del romanticismo non ci avrebbe messo volentieri la firma?

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