DOTTRINE POLITICHE – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA NELLE RIVOLUZIONI DEL ‘700

Thomas Jefferson

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LIBERALISMO E DEMOCRAZIA NELLE RIVOLUZIONI DEL ‘700

Finora abbiamo studiato la formazione del pensiero liberale e democratico per opera di scrittori che erano prevalentemente dei filosofi,  oppure dei giuristi, i quali quindi, più elle di una piattaforma per un’azione politica vera e propria, si preoccupavano di comprendere e definire l’idea dello Stato moderno. Ma queste idee furono poste ad un notevole banco di prova nelle due grandi rivoluzioni del Settecento, la rivoluzione delle colonie americane (1775-1783), che portò alla formazione degli Stati Uniti d’America, e la grande Rivoluzione francese (1789-1815), che in apparenza falli nel cesarismo di Napoleone Bonaparte e nella finale restaurazione della monarchia in Francia e in tutti i Paesi che ne avevano seguita la grande avventura, ma che in sostanza aprì in Europa l’era dello Stato liberal-democratico (borghese). Durante questo periodo l’attività filosofico-politica si fa meno intensa e interessante, mentre com’è naturale, il pensiero si concentra sui problemi che sorgono dalla necessaria trasformazione delle idee in programmi pratici.

La Rivoluzione americana è stata una rivoluzione agricolo-borghese con la partecipazione, peraltro non sempre entusiastica, di una parte dei latifondisti degli Stati del Sud: tanto legata a questi caratteri, che Thomas Jefferson, con spirito profetico (ed ora sappiamo che è stato buon profeta), affermò che il giorno in cui fosse avvenuta in America la rivoluzione industriale di tipo europeo i principii della democrazia americana sarebbero entrati in crisi. Più complessa è la storia della Rivoluzione francese: comincia come rivoluzione della parte ricca e intellettuale della borghesia per slittare, durante il periodo della Convenzione e della dittatura di Robespierre, nella democrazia radicale, dalla quale escono (prima per opera di  Anacharsis Cloots, poi in parte per opera dello stesso Robespierre, infine soprattutto per opera di Babeuf e del Buonarroti) i primi confusi e disarticolati accenni al socialismo. Ma alla fine della Convenzione, durante il Direttorio, l’Impero e anche la Restaurazione, è la borghesia che riprende il sopravento: nel suo processo complessivo la Rivoluzione francese resta una rivoluzione liberale o. tutt’al più, liberal-democratica (compromesso impossibile in teoria, ma largamente realizzato nella pratica).

Prima della Rivoluzione americana e nel corso di essa, i principii più largamente diffusi tra gli scrittori politici sono quelli del Locke: sovranità popolare, diritto-del popolo a scegliersi il proprio governo, obbligo dello stato a rispettare i termini del. contratto sociale, diritto dei sudditi, in casi estremi, di ribellarsi al Re e mutare regime.
Sulla letteratura filosofico-politica di questo periodo c’è poco da dire. Più pratici che teorici, gli scrittori politici. come Thomas Payne (1737-1809: lo scritto più importante è Public Good, del 1780) e Thomas Jefferson (1713-1826), poco o nulla; aggiungono al1a teorica generale del Locke se non molto acume nella disamina dei problemi concreti del momento e molto buon senso. Tom Payne insiste soprattutto sul carattere non divino e non assoluto della monarchia, e quindi sull’opportunità di fondare uno Stato repubblicano. Jefferson, in fondo l’unico autentico pensatore politico di questa America rivoluzionaria, è importante per avere ispirato due grandi documenti, il Bill of Rights (Dichiarazione dei Diritti) dei 12 giugno 1776 e la Dichiarazione di Indipendenza dei 4 luglio 1776. Il Bill of Rights consiste di 16 articoli nei quali, dopo aver dischiarato che “Tutti gli uomini sono per natura uguali e indipendenti ed hanno certi diritti innati, dei quali, quando essi entrano in una società, non possono con nessuna legge privare o spogliare la loro posterità; e precisamente il godimento della vita e della libertà, insieme ai mezzi di acquistare e possedere una proprietà, e conseguire ed ottenere la felicità e la sicurezza” (art. I), si passa a proclamare la sovranità popolare, i fini del governo (“Il governo è, o dovrebbe essere, istituito per il comune beneficio, protezione e sicurezza del popolo”, art. III), la separazione dei poteri, il principio della rappresentanza popolare (elettività del potere), e finalmente le “libertà”, tra le quali emergono la libertà di stampa e la libertà religiosa. La Dichiarazione di Indipendenza ribadisce in forma più concisa ma più solenne i medesimi principii; poi passa ad enumerare le colpe del Re d’Inghilterra verso i coloni americani, colpe che giustificano la volontà dichiarata di questi ultimi di separarsi e formare uno Stato a sé.

In Francia nel campo delle dottrine, c’è ben poco di nuovo dopo Montesquieu e Rousseau, se non un tentativo di semplificarne praticamente e contaminarne ecletticamente i principii. Fa però eccezione un importante cahier, intitolato Che cos’è il Terzo Stato? (1788-89), pubblicato da un eminente leader della rivoluzione liberale, l’abate Emmanuel-Joseph Sieyès (1718-1836). La Francia, com’è noto, era per tradizione legalmente divisa in tre “stati” o ceti: clero, nobiltà e “terzo stato “. Quest’ultimo ultimo ora costituito dal popolo, povero o ricco che fosse. Siccome il Re aveva deciso di convocare gli Stati Generali, cioè l’assemblea rappresentativa del popolo francese diviso nei tre stati, la borghesia (frazione-guida del “terzo stato”) vedeva in ciò l’opportunità di affermare attraverso questa convocazione le proprie aspirazioni a partecipare all’esercizio del potere e ad una riforma dello Stato. Il Sieyès, appunto per sostenere questo aspirazioni, sviluppa la tesi che il terzo stato non conta politicamente nulla, mentre invece è tutto il popolo francese. É numericamente la stragrande maggioranza (più del 90% della popolazione totale); non solo, ma, essendo l’insieme di tutte le forze produttive del Paese (i primi. due ceti erano meramente parassitari e della loro scomparsa la Francia non avrebbe risentito se non in bene), il terzo stato aveva il diritto di identificarsi con la Nazione. Naturalmente, noi oggi potremmo osservare che in realtà il “terzo stato” era ancora un’astrazione, perchè non si teneva conto della sua complessa composizione classistica (alta borghesia, borghesia intellettuale, artigianato. contadini, etc.).
Tuttavia lo scritto del Sieyès compie un passo decisivo oltre l’astratto liberalismo del Settecento: il popolo nella sua vivente comunità (nazione), il popolo che veramente conta e ha diritto ad essere sovrano, non è più il mero insieme di individui legati astrattamente da un “contratto”, ma è l’unione delle forze produttive da cui dipendono la vita e il progresso, economico e morale, del Paese. Con questa dottrina si passava ad una concezione non più legalistica e formale, ma economicamente e storicamente concreta del “popolo”. Ed infatti con la Rivoluzione francese già si presenta quell’identificazione tra sentimento patriottico e politica- democratica che sarà caratteristica del secolo successivo. Qui la “Patria” non è un’astratta bandiera o il mero aspetto fisico della terra, bensì la vivente unità del popolo restituito a se stesso dalla Rivoluzione. (Un’aspetto che gli odierni cedisti forse non hanno voglia di ben meditare).

Anche la Rivoluzione francese ebbe la sua Dichiarazione dei Diritti, premessa alla Costituzione liberale del 1791. Questa celeberrima Dichiarazione, destinata a divenire il Vangelo del liberalismo ottocentesco, riecheggia il Bill of Rights americano. ma rispecchia il pensiero politico e le condizioni concrete di quella prima fase della Rivoluzione francese. Vi si afferma solennemente che “gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti” (art. I), e che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo” (art. II), indi il principio della sovranità popolare (art. III).
Segue un’importantissima definizione della “libertà” – importantissima perchè divenuta la classica definizione del liberalismo politico:
“La libertà consiste essenzialmente nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali di ciascun individuo non ha altri limiti se non quelli che assicurano agli altri membri sella Società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non possono essere determinati che dalla legge (art. IV).

Dunque, questa libertà è affermata solo negativamente, piuttosto come un limite dello Stato che come un modo di effettiva partecipazione alla vita di esso, anche se l’articolo VI proclama il principio della sovranità popolare e dell’uguaglianza politica. Seguono poi i principii costituzionali (limiti del potere giudiziario, divisione dei poteri) e le “libertà (di pensiero e religione,  di stampa), nonché l’inviolabilità della proprietà privata. Tutta questa Dichiarazione resta strettamente nell`ambito dei  “diritti dell’uomo”: l’uomo è posto di fronte allo Stato come qualcosa che questo può toccare solo entro certi limiti; ma in compenso lo Stato resta di fronte all`uomo qualcosa di “sacro”, di trascendente. A differenza del Bill americano volto a definire il concetto di una comunità democratica, qui non si parla di diritti del cittadino. Non solo, ma (come del resto anche nel Bill) non si parla di libertà di associazione: cosa che in quel momento la borghesia non desiderava, e anzi temeva. L’uguaglianza che vi veniva definita era strettamente giuridica; essa, più che abolire sanzionava le differenze reali di ricchezza, ingegno, etc. E, tolta la breve parentesi democratica, tutto il corso della Rivoluzione francese nonché del liberalismo europeo tenderà in questa direzione. Passato il primo impeto rivoluzionario, non tarderà a divenire reazione.

Emmanuel Joseph Sieyès (1817)
Jacques-Louis David (1748–1825)
Olio su tela cm 98 x 74
Fogg Museum, Cambridge, Massachusetts

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