DOTTRINE POLITICHE – LA LETTERATURA DELLA RESTAURAZIONE

Edmund Burke

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LA LETTERATURA DELLA RESTAURAZIONE

Già durante la Rivoluzione francese, come sul terreno politico pratico era viva la reazione, così nel campo del pensiero cominciava ad abbondare la letteratura controrivoluzionaria, rivolta alla critica o spesso semplicemente alla denigrazione della Rivoluzione. Questa letteratura si intensifica, naturalmente, nel periodo della Restaurazione, dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, il Congresso di Vienna e la Santa Alleanza (1815). Gran parte di questi scritti, saturi di odio antirivoluzionario e antimoderno, vanno catalogati fra il peggiore libellismo d’occasione, i cui autori non meritano neppure di venir citati. Costoro in genere non sanno fare altro che andare a rivangare vecchi motivi che già la stessa teorica moderna dell’assolutismo aveva lasciati cadere, come il preteso “diritto divino” della monarchia. Tuttavia nei più importanti scritti della Restaurazione emergono, sia pure su di uno sfondo reazionario, punti di vista e principii che eserciteranno poi una decisiva influenza sulla formazione del pensiero. politico, sia liberale sia socialista, del XIX secolo.

Il primo, in ordine di tempo, di questi scritti reazionari di cui vale la pena di parlare è Riflessioni sulla Rivoluzione francese (1790) dell’inglese Edmund Burke. Egli prende decisamente partito contro quei suoi compatrioti, come per esempio il Price, che ammiravano la Rivoluzione francese. Questi ultimi avevano sottolineato le somiglianze tra ciò che stava accadendo in Francia e quella rivoluzione che un secolo prima aveva portato al regime parlamentare in Inghilterra; il Burke invece sottolinea le differenze. La Rivoluzione francese – egli afferma – è astratta e antistorica, mirante a distruggere una secolare tradizione di costume e di governo; invece le rivoluzioni inglesi, a cominciare da quella medievale che aveva imposto al Plantageneto la Magna Charta, sono state tutte rivoluzioni “conservatrici”, miranti tutte a salvare tradizionali libertà e costituzioni contro tentativi di “rivoluzione” monarchica. Infine la Rivoluzione francese rischia di degenerare in una dittatura dell’intelligenza; in Inghilterra invece il potere resta nelle mani dei proprietari di terra, costituzionalmente conservatori e tradizionalisti. Perciò il liberalismo francese degenererà presto in democrazia, e questa — secondo uno schema di processo storico-politico già elaborato nell’antichità da Platone ed Aristotele – finirà nella tirannide.
Da quest’opera del Burke, densa di livore antifrancese e reazionario, emergono già degli spunti interessanti: uno di questi è che un liberalismo politico, per reggersi, deve sostenersi sugli interessi e i privilegi di una classe molto stabile come la proprietà terriera, e che quindi “liberalismo” non significa uguaglianza, neppure sul piano della libertà formale, ma governo di una certa classe.
L’altro è che una rivoluzione non può avvenire nel vuoto, come mera deduzione da certi principii filosofici, astrattamente posti, bensì deve avvenire nel concreto di situazioni e tradizioni storiche, giuridiche ed economiche: due concetti che – con intenzioni esattamente opposte a quelle del Burke – il socialismo dell’Ottocento farà suoi.
L’esigenza di questo concreto storico in cui si devono muovere le istituzioni rivoluzionarie è sentita ed affermata anche da uno scrittore italiano, Vincenzo Cuoco (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, 1801.) Il Cuoco, pur essendo un liberale, trova che i motivi per cui la rivoluzione napoletana del 1799 era fallita nell’indifferenza, anzi ostilità, del popolo, erano costituiti principalmente dal fatto che le riforme erano state astrattamente imposte, sul modello francese, ad un popolo ad esse ancora disadatto e immaturo per la sua concreta situazione storica.

La letteratura francese della Restaurazione batte invece in genere su di una tastiera assai diversa. Se nel complesso i teorici della Rivoluzione erano mossi da concetti astratti, i teorici della Restaurazione muovono addirittura da miti. Il mito centrale, sostenuto con altrettanto vigore polemico quanta povertà di pensiero da Joseph Marie de Maistre (Considérations sur la France, Basilea 1797; Du Pape, 1808) e da Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald  (Législation primitive, 1802), è quello dell’avvento del Regno di Dio (cioè del governo universale del Papa) nel mondo. Viene messa in evidenza l’astrattezza dell’idea di sovranità popolare e criticato il concetto di “stato di natura”. Il vero “stato di natura” non è quello originario della specie, ma l’ultimo a cui giunge l’umanità nel suo sviluppo storico. (Un concetto che verrà ripreso da Johann Gottlieb Fichtee da Hegel, e poi sviluppato in maniera originale da Marx nell’Ideologia Tedesca e nei Manoscritti economico-filosofici).
Come si vede, una mitologia astratta, la quale non la altro che contrapporre all’ideologia giacobina un’altra ideologia, cattolico-monarchica. Ma anche di qui emergono alcuni tratti che il pensiero politico posteriore farà suoi.

Se facciamo eccezione di Kal Ludwig von Haller e di pochi altri, del resto poco stimati dai loro stessi compatrioti reazionari, il pensiero politico della Restaurazione in Germania presenta notevoli peculiarità. Questa in primo luogo, che i maggiori suoi rappresentanti, come Kant, Fichte, Hegel, hanno tutti provato un entusiasmo, più o meno vivo ma comunque sincero, per i primi atti della Rivoluzione francese; e in secondo luogo che essi sono principalmente filosofi, e anzi grandi filosofi, e quindi anche quando passano dalla parte avversa non possono dimenticare molti elementi positivi della Rivoluzione stessa.
D’altra parte la Germania era un paese troppo arretrato, e la reazione vi prese forme troppo rozze e stupide perchè gli stessi pensatori controrivoluzionari non sentissero l’esigenza di un rinnovamento pur entro schemi ideologici e istituzioni politiche diversi da quelli della Francia rivoluzionaria. Si ha cosi quel peculiare aspetto del pensiero della Restaurazione che ê nolo con il nome di Romanticismo, e che ha avuto in Germania, prima di diffondersi in Europa, la sua formulazione filosofica.
L’aspetto più caratteristico della politica romantica è il nazionalismo, che però abbiamo visto far capolino anche nel pensiero inglese e francese. Praticamente esso aveva cementato le forze tedesche di opposizione alle vittoriose armate napoleoniche. Come nel Burke, e in fondo anche nel De Maistre e nel De Bonald, anche qui ci si oppone alla concezione “atomistica” dello Stato come unione contrattuale di egoisti e di egoismi, contrapponendole una concezione organicistica dello Stato. Quest’ultimo viene considerato alla stregua di un organismo nelle cui istituzioni vive una comunità umana avente un comune “destino” – concetto molto oscuro, dietro il quale già allora, e più ancora nell’epoca d’oro del capitalismo, si verranno spesso a nascondere gli interessi e la volontà della classe dominante. ln concreto, questo “destino” si realizza in costumi, tradizioni, religione, lingua comuni, che costituiscono l’unità perenne del popolo. A questi caratteri Fichte, nei Discorsi alla Nazione tedesca (1808) che si può considerare il massimo testo del nazionalismo romantico, aggiungerà la razza, creando lo sciagurato mito della superiorità storica del “popolo biondo”. In seguito questo nazionalismo si fonderà intimamente col liberalismo politico, soprattutto in quei paesi, come l’Italia, in cui la nazione non era unita in Stato, molte regioni essendo ancora sotto il dominio diretto dell’Austria, e tutte sotto la sua egemonia politica.
E ciò in parte succederà nella stessa Germania. Ma per il momento era facile ai potentati reazionari tedeschi mostrare come le idee liberali e democratiche, importate dalla Francia, fossero estranee allo spirito nazionale del popolo tedesco.
Lo storicismo è qui particolarmente forte; anzi, per opera dei grandi filosofi tedeschi, in particolare di Hegel, diviene la nuova trionfante ideologia che viene a contrapporsi al razionalismo liberale illuministico. Un altro aspetto particolarmente interessante che si sviluppa da questa politica romantica è l’idea dello Stato economicamente chiuso, propugnata dal Fichte (Lo Stato commerciale chiuso, 1800) e più tardi ripresa da Friedrich List (Sistema nazionale di economia politica, 1841). Secondo costoro all’unità nazionale dovrebbe corrispondere un’unità economica, (però in senso meramente commerciale): lo Stato dovrebbe formare un’unità commercialmente regione e regione, ma assolutamente priva di veri e propri rapporti commerciali con l’esterno (idea dell’autarchia economica).
Da queste concezioni dell’età della Restaurazione si svilupperà la grande teoria hegeliana dello Stato, della quale dovremo parlare nella prossima puntata.

Joseph Marie de Maistre

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