JEAN PAUL SARTRE

JEAN PAUL SARTRE E LA POLITICA

Jean-Paul Charles Aymard Sartre ( Parigi, 21 giugno 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) è stato un romanziere, drammaturgo, filosofo, critico religioso e pubblicista francese. È considerato un pioniere e principale rappresentante dell’esistenzialismo e un esempio degli intellettuali francesi del XX secolo. Era il partner di lunga data di Simone de Beauvoir.

Jean Paul Sartre nel 1970 ha reso pubblici due documenti di estremo interesse che rappresentano, in un certo senso, la più completa testimonianza della sua concezione del mondo e delle scelte di fondo che egli ha fatto. Si tratta di una lunga intervista concessa a tre redattori del periodico britannico “New Left Review”, nella quale il filosofo parla della scoperta da parte sua del marxismo e della psicanalisi, della sua attuale concezione della libertà dei rapporti dell’individuo con la storia, eccetera; e della prefazione che egli ha premesso al libro Trois génération (una serie di autoritratti di intellettuali cecoslovacchi), nella quale, partendo da un’analisi degli avvenimenti cecoslovacchi del 1968, espone il suo pensiero sul socialismo, su quelle che egli considera le sue degenerazioni e sulle sue prospettive.
Si tratta di due documenti di estremo interesse che non solo si presentano come indispensabili testi di riferimento per la migliore comprensione di quella che resta una delle figure di intellettuale più interessanti della nostra epoca, ma che offrono anche motivi di riflessione più generali sui problemi che appassionano tutti gli uomini del nostro tempo.
Sartre è un testimone tipico d’una parte assai significativa e importante dell’intellettualità del suo tempo; di quegli intellettuali che hanno rotto ogni legame materiale e morale con le vecchie classi dominanti, che riconoscono nel proletariato rivoluzionario, e di conseguenza nel marxismo, nella rivoluzione socialista d’Ottobre e nel movimento comunista l’asse della storia e del progresso umano, ma che tuttavia non riescono a identificarsi completamente (e immediatamente) con noi, e che, va aggiunto, non sono naturalmente, riuscì ancora a demistificare una serie di valori e di problemi propri del mondo borghese e di quella che Gramsci ha identificato e definito come intellettualità “tradizionale”.

Illuminante a questo proposito l’itinerario che ha portato Sartre da una ostilità nei confronti della borghesia, che, come ha ricordato Simone de Beauvoir, restava individuale, dun- que borghese -, ad un impegno totale che in questi anni lo ha visto in prima linea nelle grandi battaglie politiche e ideali contro la barbarie borghese ( guerra fredda, Algeria, Vietnam).

All’inizio (negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale) la posizione di Sartre appare caratterizzata da una “simpatia di principiò” per il proletariato, da una vaga ammirazione per la rivoluzione bolscevica, da una certa attrazione per il Partito comunista, ma anche, e soprattutto, da una totale passività e da una libertà per niente, da sentimenti astratti e, in definitiva, da un sostanziale disinteresse per la politica. L’esperienza della guerra e della Resistenza contro il nazismo, costringe il filosofo a scegliere, a “prendere partito”, ad impegnarsi. Tuttavia egli crede ancora che “qualunque siano le circostanze, dovunque, un uomo è sempre libero di scegliere se sarà o no un traditore”.

Negli anni che seguono la Liberazione, l’opera di Sartre oscilla tra due poli: l’antologia e la politica, l’analisi della libertà e le prese di posizione sulla società, il ruolo della letteratura, l’esigenza rivoluzionaria. Manca tuttavia ancora l’elemento etico che leghi questi due aspetti e giustifichi le posizioni politiche. La trasformazione avviene con la guerra fredda, con la guerra di Corea. “Il problema fondamentale – scrive ora Sartre – è quello dei miei rapporti col marxismo. Vorrei tentare di spiegare, con la mia autobiografia, certi aspetti dei miei primi lavori, perchè questo può aiutare a comprendere perchè ho così profondamente mutato punto di vista dopo la seconda guerra mondiale. Potrei dire, con una formula semplice, che la vita mi ha insegnato la forza delle cose”.

Quanto cammino la “forza delle cose” ha fatto percorrere al filosofo lo si può vedere confrontando la concezione della “libertà assoluta” ricordata più sopra con la definizione che Sartre da ora, nel 1970, della libertà: “questo piccolo movimento che fa di un essere sociale totalmente condizionato una persona che non restituisce la totalità di ciò che essa ha ricevuto dal suo condizionamento”.
Questa concezione della libertà trova la sua spiegazione nella più generale concezione del mondo che Sartre è venuto elaborando in tutti quegli anni: “in una vera teoria dialettica, come il materialismo storico, i fenomeni derivano gli uni dagli altri dialetticamente: vi sono differenti configurazioni della realtà dialettica, e ognuna di queste configurazioni è rigorosamente condizionata dalla precedente, che essa integra e supera contemporaneamente. Ora, precisamente questo superamento non è riducibile: non si può mai ridurre una configurazione a quella che l’ha preceduta. La scoperta della lotta delle classi è stata per me una vera scoperta: io vi credo ancora, totalmente, oggi, nella forma stessa in cui Marx l’ha descritta. L’epoca è cambiata ma è sempre la stessa lotta tra le stesse classi, con lo stesso cammino verso la vittoria”.

È nel quadro di questa concezione generale che va considerato il saggio sul “socialismo venuto dal freddo”, dedicato ai fatti di Cecoslovacchia del 1968 e alla situazione esistente nelle file del movimento comunista internazionale. Si tratta di un saggio estremamente duro nel quale Sartre, schierandosi incondizionatamente col “nuovo corso” di Praga, attacca con un linguaggio pesante e passionale la politica dell’Unione Sovietica e degli altri paesi del campo socialista, denunciando l’irreversibilità di quella che egli definisce “la degradazione implacabile e continua del socialismo sovietico”.

In un certo senso questo saggio si riallaccia all’altro, Il fantasma di Stalin, che il filosofo pubblicò dopo i fatti d’Ungheria, alla fine del 1956, per cercare di comprendere storicamente come e perchè si poterono determinare nel mondo socialista e nel movimento comunista le deviazioni o la degenerazione dello stalinismo.

Se però allora Sartre è stato rigoroso nel rifiutare sempre “quella meccanica condanna in blocco di tutta l’esperienza staliniana, quella meccanica identificazione fra comunismo e stalinismo, cioè poi quella meccanica concezione dello stalinismo come sbocco logico e fatale della rivoluzione d’Ottobre, che è stato invece il cavallo di battaglia di tanti intellettuali di sinistra capitolardi e di tanti revisionisti ritardatari” [(Mario Alicata), oggi la sua prospettiva appare più chiusa, più disperata, e la condanna che egli emette non si limita più solo a questo o a quell’aspetto della politica dell’Unione Sovietica ma sem bra coinvolgere tutta l’esperienza sovietica: “È col regime che bisogna prendersela – scrive ora -, con le relazioni di produzione che l’hanno costituito e che si sono consolidate e fissate con la sua azione: dopo l’agosto 1968, bisogna abbandonare, a questo proposito, la piattaforma del moralismo e dell’illusione riformista: la macchina non si può riparare: bisogna che i popoli se ne impadroniscano e la gettino tra i rottami”.
Con questa conclusione, Sartre va molto lontano sulla strada della valutazione dell’esperienza sovietica. Certo egli non è mai stato un comunista e non si può certo applicare a lui stesso quanto il filosofo scrisse nel 1952 a proposito dei transfughi del comunismo(“”Io, qualche volta, li incontro, questi esclusi: hanno conservato il loro tenero sorriso, ma l’occhio è leggermente cupo: la contraddizione del nostro tempo si è impossessata di loro. Come è possibile credere alla missione storica del proletariato e nello stesso tempo al tradimento del partito comunista, quando è dimostrato che l’uno vota per l’altro? Riescono lo stesso a cavarsela, ma a stento: tutti percorrono, in un tempo più o meno lungo, le quattro tappe fatidiche. Prima tappa: “Certo il partito sbaglia, ma non si può, comunque, andare contro il proletariato”. Seconda tappa: “La classe operaia continua ad essere la mia passione, bisogna riconoscere, comunque, che non è molto perspicace. Guardate i lavoratori tedeschi: si sono fatti menare per il naso da quel ciarlatano di Hitler”. Terza tappa: ”La classe operaia non mi interessa più da quando sopporta, senza indignarsi, i campi di concentramento sovietici”. Quarta ed ultima tappa: l’Apocalisse: “Vi concludiamo un’alleanza con gli Stati Uniti. Stop. Vi atomizziamo la Russia. Stop. Vi impicchiamo tutti i comunisti. Stop. E sulle rovine vi ricostruiamo il vero socialismo, internazionalista, democratico e riformista””).

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre

Sartre e “la forza delle cose”

Certo egli non è a questo punto. Ma il trauma provocatogli dai fatti cecoslovacchi gli ha fatto perdere quella capacità critica che egli aveva saputo conservare in altre non meno gravi circostanze. Ed appare in un certo senso in contraddizione con la coscienza che egli ha della complessità della realtà e del suo valore primario in tutte le circostanze.

La “forza delle cose” non può essere ridotta agli avvenimenti cecoslovacchi e a una valutazione manichea – senza chiaroscuri – degli avvenimenti cecoslovacchi. E nel valutare le cose non si può prescindere dal fatto che il maggior appoggio politico e aiuto materiale sia venuto al popolo vietnamita proprio dall’Unione Sovietica e che, in un altro esplosivo scacchiere, solo l’appoggio sovietico e servito a contenere lo sfrenato bellicismo dello Stato di Israele. Non tener conto della realtà mondiale nel suo complesso fa correre il rischio di perdere qualsiasi aggancio con la realtà e di rendere sterili prese di posizione per altri aspetti degne di interesse.

Sartre è e resta un grande intellettuale che ha svolto una funzione importante come coscienza critica del nostro tempo. In ogni momento gli va dato atto della sua profonda onestà intellettuale e della funzione di stimolo che egli ha assolto con alto impegno in tutti questi anni. Proprio perciò crediamo che manifestare il dissenso nei confronti delle posizioni che egli è venuto maturando più di recente sia un dovere irrinunciabile. Certo nel confronto fra posizioni divergenti è da ricercarsi il germe di nuovi e più alti sviluppi.

E proprio a proposito di Sartre, Mario Alicata ha scritto che una delle leve sulle quali bisogna poggiare per sviluppare oggi in modo creativo il marxismo e sbarazzarlo di ogni tendenza alla cristallizzazione dogmatica, è quella di far funzionare in modo corretto il rapporto fra noi comunisti e quanti, pur non militando nel partito e non essendo pervenuti ad una concezione marxista del mondo, almeno quale noi l’intendiamo, appartengono al movimento rivoluzionario e considerano il marxismo come il punto di riferimento essenziale d’ogni indagine teorica del nostro tempo”.

Sono parole che conservano tutta la loro validità. Ma in questo caso gli sviluppi potranno avvenire solo se Sartre ancora una volta saprà accettare con umiltà la lezione che viene dalle cose.

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