I MACCHIAIOLI ITALIANI – Giovanni Fattori

 

Autoritratto di Giovanni Fattori (1854)
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Renato Salvini, autore di Lineamenti di storia dell’arte, nelle sue pagine, mentre precisa l’importanza della scuola dei macchiaioli toscani, come elemento di rottura con la tradizione accademica e vuota della pittura italiana, ne mette in evidenza anche i limiti nei confronti della grande scuola impressionistica francese da cui prende le mosse, scoprendoli in un gusto troppo provinciale e nella mancanza di slancio nel proposito di rinnovamento dei temi e della tecnica.

In Italia il gruppo più vivace di artisti dell’Ottocento è quello che si raccoglie dal 1855 al Caffè Michelangiolo in via Larga (oggi Via Cavour), a Firenze.
Come sempre accade in questi casi, si tratta di artisti diversi per valore e anche per temperamento, i quali parteciparono tuttavia per un certo tempo ad un clima comune: clima – giova accennarlo – in cui i sentimenti di riscossa patriottica e di libertà politica si confondevano con un desiderio di rinnovamento dell’arte, lo spirito di rivolta al vecchio mondo granducale (il governo del Granducato di Toscana, per quanto bonario e accomodante, era chiuso ad ogni soffio innovatore) faceva tutt’uno con l’opposizione alla pittura accademica.
Bisogna pensare che a quel tempo tenevano ancora il campo in Firenze pittori timidamente romantici su fondamento neoclassico e pittori desolatamente accademici di quadroni storici nei quali il disegno e il chiaroscuro di tradizione neoclassica mostravano ormai una vuotezza assoluta.
I giovani del caffè Michelangiolo, stimolati dagli echi delle novità di Francia cominciarono pertanto con l’opporsi all’inespressiva finitezza del disegno e del chiaroscuro di quella pittura, e al chiaroscuro e al disegno contrapposero la macchia (tecnica pittorica, da cui prendono il nome i macchiaioli).
Essi si appellavano al vero, ma negavano al disegno accademico la capacità di rendere la realtà .come essa appare all’occhio ed affermavano che la prima impressione delle cose era un’impressione di ‘macchia’, di toni chiari cioè su toni scuri, privi gli uni e gli altri di esatti contorni.
Questa pittura a macchia poteva diversamente configurarsi, ora più piatta, più assolutamente cromatica, ora invece densa di valori plastici ed anche misuratamente alleata col disegno chiaroscurale.
La rivoluzione dei macchiaioli fu una rivoluzione addomesticata, non giunse alle estreme conseguenze dei movimenti francesi, e rimase confinata nei limiti di una visione molto episodica della realtà.
Vi manca quasi sempre quello spirito universale, quella comprensione della natura sotto un angolo visuale vastissimo che forma invece la grandezza dell’impressionismo francese (la maniera di Monet e di Cézanne, consistente nel mettere in rilievo, nel quadro, una figura od un colore, dai quali è stata ‘impressionata’ dapprima e più fortemente la fantasia dell’artista).
Ma i rapporti con la Francia furono del resto molto saltuari e scarsi, e quelli tra i macchiaioli che furono a Parigi e riferirono ai loro compagni di Via Larga fermarono per lo più la loro attenzione su fatti marginali o su movimenti già vecchi della pittura francese.
E’ da concludere pertanto che il movimento dei macchiaioli sorse sul fondamento di qualche conoscenza del paesismo romantico francese e su di un fondo tradizionale, o vogliam dire puristico, di ammirazione per il Quattrocento fiorentino (Botticelli, Beato Angelico, ecc. ), e cominciò a concretarsi in effettivi risultati artistici soltanto oltre il 1860; giunse più tardi qualche più o meno diretta sollecitazione dall’impressionismo francese.
Sicché, nonostante la generosa nobiltà d’animo di quei pittori – e molti di essi dovettero a lungo lottare con le difficoltà economiche e l’incomprensione del pubblico – e le indubbie doti artistiche di alcuni di essi, il macchiaiolismo rimase un fenomeno provinciale.
Giovanni Fattori ((Livorno, 6 settembre 1825 – Firenze, 30 agosto 1908)) fu la più forte personalità artistica del gruppo.
Livornese, viene a vent’anni a Firenze alla scuola del Bezzuoli (pittore fiorentino della prima metà del secolo XIX) e intanto cospira negli ambienti del partito d’azione (partito d’ispirazione mazziniana) e partecipa ai moti del ’48.
Al Caffè Michelangiolo, che egli frequenta fino dal ’50, si parla già di realismo, ma il realismo che egli e i suoi compagni d’arte, reduci quasi tutti dalle campagne d’indipendenza, ricercano, è ancora sulle tracce della pittura accademica.
La battaglia di Magenta (1861-1862) – Giovanni Fattori
Galleria d’Arte Moderna – Firenze
Olio su tela cm 232 x 384
L’incontro, nel ’60, col romano Nino Costa, pittore non grande ma esperto di pittura (romantica e realistica) francese, fu forse l’impulso occasionale che lo determinò ad abbandonare la maniera accademico-romantica che aveva seguito nei primi quadri.
Già nel bozzetto del quadro La battaglia di Magenta, appunto del ’60, è una ricerca di rapidi effetti di macchia, che si perde poi nella redazione definitiva del quadro.
Nei quadri di battaglia, che dipinse numerosi ancora per una ventina d’anni, il Fattori non riuscì mai a superare totalmente l’impianto accademico del disegno, benché una nuova sobrietà, una maggior forza di sintesi e un vasto respiro spaziale distinguano questi suoi dipinti dalla pittura storica tradizionale.

I ritratti puntano più direttamente, anche se con lentezza, verso il rinnovamento.

Cugina Argia (1861) Giovanni Fattori
Galleria d’Arte Moderna – Firenze

Ricordano ancora quelli del Bezzuoli nel taglio compositivo e nell’accuratezza del disegno, ma hanno – a cominciare dalla Cugina Argia del ’61 a Firenze – un piglio più sintetico e stacchi più decisi di colore, su toni chiari, sicché le immagini si imprimono con notevole forza vitale sull’osservatore.

Rotonda dei bagni Palmieri (Giovanni Fattori)

Ma è nei quadretti di paesaggio o di genere che si va affermando più rapidamente, a partire dal ’65, una nuova visione: così nella famosa Rotonda di Palmieri del ’66 (Galleria d’Arte Moderna, Firenze), dove un gruppo di signore nel padiglione di uno stabilimento balneare livornese dà luogo ad un contrappunto aggraziato di macchie chiare e scure stampate sul disegno schematico delle vesti a campana, su di uno sfondo luminoso ma fermo; così, con poesia più sicura, nella Sardigna, veduta di una fattoria di Maremma, probabilmente di quegli anni, dove la bianca cubica casa vive come macchia nella luce sul vasto terreno, comunicando un sentimento di squallida ma non acerba malinconia.

Barrocci romani (1872-1873) Giovanni Fattori
Galleria di Arte Moderna – Firenze
Tempera su tela cm 21 × 31 
E’ spesso nei quadretti di questo tipo una concisione di linguaggio che assorbe senza residui ogni elemento illustrativo, superando quel tanto di episodico che può inerire al soggetto.
Così sorge, fra l’altro, nel ’73, quel capolavoro che è la tavoletta raffigurante i Barrocci romani, dove quattro cavalli meriggiano sulla polvere di una strada assolata.

Nei quadri di grandi dimensioni assai spesso “il colore si snerva, perde di virtù costruttiva e ricorre ad imprestiti chiaroscurali dalla pittura del Costa; mentre si moltiplicano gli elementi illustrativi” (Cecchi).

Maremma toscana (1894) Giovanni fattori
Galleria d’Arte Moderna – Firenze
Olio su tela cm 74 x 204
Ma la forte sintesi delle tavolette regge in alcuni casi felici all’ingrandimento, e sorge allora la poesia più vasta del Fattori, come nella famosa Maremma toscana della Moderna di Firenze: i buoi che avanzano lentissimi e l’uomo che, in legamento ritmico con essi, si allontana, animano di una rotazione lenta e perenne lo spazio desolato e vastissimo.
Sorge da questo, e dalla bassa e monotona intonazione dei colori, una solennità malinconica di tono quasi carducciano, ma con un accento, estraneo al poeta, di rassegnata tristezza.
L’animo del Fattori è vicino alla natura, a quella più disadorna e anche desolata della campagna romana coi cavalli al pascolo o della maremma coi buoi aggiogati e gli uomini distorti dal lavoro – e sono questi, accanto a quelli di vita militare, i soggetti che con più insistenza tornano nella sua opera -, è vicino anche alla vita degli umili, dei quali sente la rassegnata fatica.
E da questo atteggiamento del suo spirito nasce più volte la poesia . . .
Con i suoi limiti, Fattori è senza dubbio il maggiore dei macchiaioli, il solo che superi a tratti ogni ‘provincialismo’ estetico (gusto del bello di sapore angusto e ristretto, proprio degli ambienti della provincia, conservatori di valori tradizionali e nemici di ogni novità).
Piazzetta di Settignano (1880) Telemaco Signorini 
Telemaco Signorini (1835-1901), che sapeva maneggiare bene la penna oltre al pennello, è un po’, col Cecioni (scultore e disegnatore fiorentino del circolo dei macchiaioli), l’anima critica del movimento.
E la macchia si afferma nei suoi quadri precocemente, già verso il 1856. Ma il suo stile è soggetto a oscillazioni e l’esame della sua opera finisce per convincere che egli fu più dotato di gusto e di un certo occhio per gli ambienti artistici coi quali venne in contatto nei suoi frequenti viaggi, che non di vena lirica.
Il meglio della sua produzione sono vedute e paesaggi, ritratti non tanto con commozione quanto con una viva sensibilità all’atmosfera del luogo: come dimostrano le sue Vedute d’Inghilterra e di Scozia del dell’82…,  nella serie delle Vedute di Settignano è un fare più largo e più morbido, un senso vivo della rustica classicità di questa Toscana minore, capacità di cogliere la compostezza classica di alcuni paesaggi della provincia toscana.
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