PAOLO, LE SUE LETTERE E QUELLE DEGLI ALTRI APOSTOLI

L’ESTASI DI SAN PAOLO – Nicolas Poussin (Vedi scheda)

PAOLO, LE SUE LETTERE E QUELLE DEGLI ALTRI APOSTOLI 

Le Lettere o epistole degli apostoli che fanno parte del Nuovo Testamento sono 21 di cui 14 scritte da Paolo di Tarso, una da Giacomo, due da Pietro, tre da Giovanni e una da Giuda, fratello di Giacomo, da non confondere con il Giuda Iscariota che tradì Gesù.

Gli apostoli, facendo propria questa forma letteraria, hanno seguito una consuetudine praticata durante l’impero romano di scrivere delle lettere su carta di papiro e di carattere pubblico sia da parte dell’imperatore che di letterati o di semplici cittadini. Quelle scritte dagli apostoli, almeno la gran parte di esse, sono, però, molto più lunghe rispetto, per esempio, a quelle di Seneca o di Cicerone. E, soprattutto, quelle di Paolo sono sempre dettate dalle circostanze o dal bisogno di chiarire, rispetto agli attacchi di cui viene fatto bersaglio; questioni dottrinarie e morali alle comunità cristiane a cui, in modo particolare, si rivolge perchè all’interno di esse l’insegnamento di Gesù non era sempre interpretato in modo corretto ed univoco. Ed é chiaro che le sue tesi hanno finito per assumere valore dottrinario per tutta la Chiesa. È quello che i Pontefici hanno continuato a fare con le loro encicliche e con le lettere apostoliche per dare un carattere unitario al magistero della Chiesa rispetto al dibattito che si sviluppa al suo interno.

Senza voler sminuire l’importanza di una Lettera rispetto ad un’altra, perché riflettono ciascuna la personalità dell’autore ed i momenti particolari in cui furono scritte e perciò egualmente significative, non c’è dubbio che assumono un rilievo peculiare quelle redatte da Paolo di Tarso. Infatti, questi, rispetto agli altri apostoli, emerge per la sua vasta cultura generale e biblica, per il suo temperamento piuttosto focoso e battagliero, per la sua esperienza religiosa singolare, per la sua capacità di parlare schietto ma anche di saper adattare il suo linguaggio alle situazioni e di ricercare un onorevole compromesso con i pubblici poteri.
Pietro, Giovanni, ossia i primi discepoli di Gesù, hanno cominciato a scoprire interiormente e lentamente la fede ricevuta dal loro Maestro, come i cristiani di oggi che vengono battezzati dopo la nascita per un atto che scaturisce da un certo ambiente familiare e si trovano a scoprire il fattore religioso entrato nella loro formazione attraverso l’esperieriza quotidiana nel confronto con gli altri nella società civile in cui vivono. Paolo invece è un convertito perchè solo da adulto dice di essere stato come “afferrato” da Gesù sulla via di Damasco, senza averlo conosciuto personalmente. Era, infatti, nato giudeo sia per parte materna che paterna (venne circonciso otto giorni dopo la nascita come la tradizione imponeva) ed aveva ricevuto una cultura di impronta ebraica ed ellenistica tanto che nella sua giovinezza era stato un avversario e, persino, un persecutore dei cristiani. E dal momento della conversione, avvenuta nel 34, che Paolo vive la sua passione per Gesù e le sue lettere sono uno documento indispensabile per seguire l’evoluzione di quella scoperta che aveva sconvolto la sua vita, della sua concezione religiosa eminentemente cristocentrica perchè tutto vede in rapporto al Cristo, Figlio di Dio, redentore e unico mediatore fra Dio e gli uomini.

Nato intorno all’anno 15 a Tarso, capitale della Cilicia in Asia Minore e crocevia di civiltà diverse, il futuro apostolo era stato chiamato Saul, un nome giudaico che ricordava re Saul che si era distinto nella lotta contro gli Idumei, il popolo da cui veniva la dinastia di Erode che in quel tempo regnava sulla Giudea e su parte della Palestina. La scelta di un nome come Saul, che non era causale nel mondo semitico, indicava l’appartenenza di Paolo alla tribù di Beniamino. Era, inoltre, nato cittadino romano ossia con quei particolari diritti e la dignità del civis che i poteri pubblici erano obbligati in tutto l’impero a far rispettare. Una sorta di salvacondotto che gli servirà anche dopo che, convertitosi al cristianesimo ed assunto il nome greco di Paulo: e, poi, quello romano di Paolo, ebbe a scontrarsi più volte con la giustizia dell’impero.
Aveva frequentato l’università della citta di Tarso, che allora contava circa trecentomila abitanti, dove Cicerone aveva fatto il governatore della Cilicia, dove Giulio Cesare fu accolto da trionfatore e dove Antonio incontrò, come scrive Plutarco, l’affascinante e fatale Cleopatra regina d’Egitto.
Perciò, Paolo, che parlava, oltre l’aramaico e l’ebraico appresi in famiglia, correntemente il greco con la pronuncia attica e conosceva pure il latino essendo un obbligo per tutti i cittadini romani esprimersi in questa lingua, si rivolse con queste parole ad un tribuno romano: “Io sono un giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una citta non certo senza importanza”.
A Gerusalemme andò a studiare da rabbino e suo padre lo fece ammettere alla scuola più ellenizzata e liberale dei maestri di quel tempo, Gamaliele, considerato un grande rabbi che esercitava sull’assemblea del Sinedrio, di cui era membro, una enorme influenza. Così, Saul perfezionò la lingua ebraica per leggere i libri del Vecchio Testamento, e l’aramaico per potersi servire dei targum, ossia dell’interpretazione dei libri sacri in lingua volgare e leggere libri importanti come quelli di Daniele e d’Esdra e il Testamento dei Dodici Patriarchi che certamente li ispirarono. Inoltre, il giovane Saul aveva ricevuto anche una formazione da giurista, che gli servì quando lo processarono più tardi a Gerusalemme ed abilmente fece appello a Cesare per essere giudicato a Roma e sottrarsi così alla giustizia di tribunali periferici poco sicuri. Infatti, più tardi a Roma, dove era arrivato da Malta nella primavera del 58 in seguito ad un avventuroso viaggio fino a Pozzuoli proseguendo poi a piedi per la Capitale dell’impero, fu assolto e restituito pienamente alla libertà nel 63 dopo due anni di carcere. Aveva anche appreso, com’era d’uso, nozioni di medicina, che aveva messo in pratica nell’aiutare i medici a contenere un’epidemia di dissenteria quando, in seguito ad una violenta tempesta, la nave che lo portava a Roma si era infranta nelle coste di Malta e, così, aveva potuto guadagnarsi vitto e alloggio.

Questi sono soltanto alcuni degli episodi che arricchiscono la vita di questo personaggio, davvero straordinario nella storia del cristianesimo, su cui si sono costruite anche delle leggende e racconti verosimili secondo cui da Roma si sarebbe recato in Spagna e, poi, ripercorrendo a ritroso la rotta che aveva fatto verso Occidente come indicano le lettere a Tito e a Timoteo, avrebbe concluso la sua vita in Asia.
Ma alle sue aperture mentali aveva influito pure quella esperienza di relazioni internazionali (aveva parenti in Cilicia, in. Macedonia, a Gerusalemme come a Roma) acquisita sin da giovane, ossia da quando, rabbino e sposato, aveva esercitato il mestiere di famiglia, il tessitore di tende, nel periodo in cui la citta di Tarso era uno dei punti più importanti del commercio internazionale trovandosi all’incrocio frail mondo semitico, l’altopiano anatolico, le citta greche e le isole e, al di là di esse, verso l’Egitto e l’Europa fino a Roma. Era cresciuto e si era formato, quindi, in un ambiente familiare e culturale dagli orizzonti mondiali e con un grande desiderio di sapere. Ecco perché, durante i suoi viaggi, si portava dietro pergamene e papiri su cui scriveva le sue annotazioni quotidiane di circa trenta righe, come facevano gli intellettuali del tempo, e conservava gli schemi e gli appunti dei suoi discorsi e interventi per essere in grado, quando le circostanze lo richiedevano, di citare i passaggi ritenuti più importanti e necessari.
È con questo vasto bagaglio culturale, religioso e metodologico, che Paolo intraprende la sua predicazione ed i suoi viaggi missionari per le vie del mondo tanto da essere, poi, definito “l’apostolo delle genti”. Gli si è riconosciuto di essere stato un punto di unione tra il cristianesimo ed il mondo greco-romano e per aver diffuso il Vangelo nei vasti territori dell’impero romano fino a Roma lasciando in eredità alla Chiesa un insegnamento prezioso ed un metodo di dialogo con le diverse culture. Ecco perchè abbiamo voluto tracciare, sia pure a grandi linee anche per stimolare la lettura delle sue lettere, un breve profilo di questo personaggio dotato di un forte e moderno senso della comunicazione, che soffrì molto per aver dovuto fronteggiare non pochi contrasti ed accuse all’intemo delle prime comunità cristiane e dovendosi misurare pure con i poteri pubblici. Rimane, perciò, una delle più forti ed inconfondibili personalità della Chiesa e della storia, un uomo molto amato ma anche contrastato.

Le sette lettere del Nuovo Testamento, non appartenenti a Paolo, hanno, invece, un carattere diverso perché non sono indirizzate ad una comunità in particolare ma ai cristiani in generale; non hanno un aspetto dogmatico ma essenzialmente morale per richiamare i fedeli a correggere e combattere comportamenti sbagliati ed a testimoniare con coerenza il messaggio cristiano attraverso atti ed opere. Le stesse lettere di Pietro, pur essendo rivolte a cristiani che come “stranieri” vivono “dispersi” nelle regioni del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia, parlano a quanti nelle province romane dell’Asia Minore si trovano ad affrontare non poche difficoltà per testimoniare la loro fede in Cristo esortandoli, quindi, a rinsaldarla ed a verificarne le genuinità. Per queste ragioni sono stare denominate “cattoliche” perché indirizzate alla Chiesa in generale e raccolte, nonostante la loro origine diversa, in un’unica collezione e inserite nel corpo del Nuovo Testamento.
Il lettore troverà queste riflessioni di grande efficacia pratica, anche per il mondo di oggi, perché invitano i cristiani a comparare, tenendo conto della struttura sociale in cui vivono e dei comportamenti delle singole persone, quante cose ingiuste si riscontrino rispetto ai comandamenti di Dio che per loro devono essere l’unico criterio di giudizio. “Chi va contro anche ad un solo comandamento della legge è colpevole di aver offeso tutta la legge”. Così scrive Giacomo ricordando ai cristiani poveri, che in Gesù hanno visto una grande speranza di liberazione, che “non sono forse i ricchi quelli che vi trattano con prepotenza e vi trascinano davanti ai tribunali?”. Ma dice pure con un linguaggio molto semplice al fine di ricordare ai cristiani che la fede va attuata: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere?”.
Pietro, invece, pone di più l’accento sulla sfida che i cristiani devono raccogliere per essere se stessi, anche se ciò comporterà sopportare sofferenze ed affrontare difficoltà, infondendo in essi speranza nell’affermare che “la vostra salvezza” è nel “raggiungere il traguardo della fede”. E iniziando sempre le sue due lettere con l’espressione “Io, Pietro, apostolo di Gesù Cristo…”, questo apostolo, al quale Gesù, secondo la testimonianza dei Vangeli, ha affidato la sua Chiesa per edificarla su una “roccia” intesa come una fede solida e indefettibile, si propone di ricordare e riaffermare, con l’autorità che gli viene dal mandate ricevuto, questo assioma a cristiani che potrebbero cedere, incalzati dalle circostanze o deviati da falsi profeti o colti da debolezze.
Giovanni, nelle sue tre lettere (la prima molto ampia e le altre due brevi), si muove in una linea esortativa sia per dare ai cristiani le istruzioni necessarie perché facciano corrispondere sempre i loro comportamenti all’insegnamento di Gesù sia per metterli in guardia da “maestri bugiardi” che con le loro dottrine potrebbero distrarli da quello che e il loro impegno fondamentale. Egualmente fa Giuda che, dopo essersi dichiarato fratello di Giacomo ossia di uno dei maggiori responsabili della comunità cristiana di Gerusalemme e parente di Gesù forse per darsi più autorità, incoraggia, nella sua breve lettera, i cristiani a seguire l’esempio dei loro fratelli retti ed equilibrati, invitandoli a prendere le distanze da coloro che della loro fede facevano motivo di orgoglio o di interesse magari per giustificare una condotta di vita immorale e non rispondente ai comandamenti della legge di Dio.
Le “lettere cattoliche” sono, perciò, dei sermoni o delle omelie che hanno un valore pedagogico perché, rispetto agli errori pullulanti, esortane alle buone opere e a praticare le virtù crstiane.

Alceste Santini

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