Storia delle dottrine e dei movimenti politici
Il LIBERALISMO DI LOCKE
Questi scrisse un’opera in due parti, intitolata “Trattato sul governo”.
Nella prima parte criticava l’ingenua teoria assolutistica del Filmer, per cui il potere del re è un potere paterno, che deriva direttamente dal potere conferito da Dio ai patriarchi suoi figli.
Nella seconda, l’unica per me veramente interessante, sviluppa invece la sua propria teoria.
Questa si fonda, come quella del Milton, sulla concezione di una legge naturale impressa da Dio nel cuore degli uomini.
Questa legge naturale conferisce ad ogni uomo il diritto alla propria libertà (che include, per il Locke, anche il diritto all’indennità della propria “pelle” e dei propri averi) e il diritto di difenderla contro coloro che, dimentichi della legge naturale, insidino i diritti di qualunque altro uomo.
Ma questo secondo diritto, nello stato di natura, genererebbe liti e guerre senza fine, non essendoci un’autorità in grado di stabilire il diritto e il torto e vigendo la sola legge della forza.
Per questo gli uomini si sono stretti in società mediante un patto sociale, cedendo alla collettività il diritto di punire i trasgressori della legge naturale e avendo in cambio di questa loro rinuncia la protezione della società contro qualunque trasgressione.
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La prima origine della sovranità risiede dunque nel collettivo così formato (il popolo) il quale a sua volta l’ha ricevuta dai singoli contraenti.
Ma occorrono degli organi che precisino i diritti e i doveri mediante leggi; un organo che abbia la forza legittima per reprimere gli abusi, e finalmente un’autorità investita del potere di giudicare.
Per questo la società incarica di queste mansioni un sovrano (che può essere tanto un singolo individuo quanto un comitato, un collegio, un’assemblea, ecc.), che ha sui singoli il potere di comandare, ma è limitato, rispetto al popolo, dai fini stessi della società e dal contratto stabilito fra sovrano e popolo.
Tanto che il popolo, in casi estremi, ha anche diritto di rescindere il patto con il sovrano e, quindi, di deporlo.
In tal modo Locke teorizzava in qualche modo il “diritto alla rivoluzione” da parte del popolo: ma, moderato e buonsensista com’era sempre, cerca di circondare questo diritto di molte barriere, considerandolo lecito solo in casi estremi.
Per quanto poi riguardava l’organizzazione politica effettiva dello Stato, Locke non fece altro che teorizzare la Costituzione inglese del 1689, sostanzialmente fondata su una separazione del potere esecutivo, spettante al re in virtù di un contratto con il popolo, dal potere legislativo, spettante ad un Parlamento bicamerale permanente, tuttavia con larghe possibilità da parte del Re di intervenire anche nell’esercizio del potere legislativo.
Il Locke infatti, a differenza dei suoi amici “whigs” a somiglianza dei “tories”, era spaventato per il duro trattamento che le classi dominanti (quelle che costituivano realmente il “popolo sovrano”) facevano subire alle classi più povere, e, a costo di incoerenza con i suoi principi liberali, sosteneva l’opportunità che il Re potesse intervenire in qualche modo a difesa dei diseredati.
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Tutto questo era, in primo luogo, incoerente con la sua dottrina, e in secondo luogo non era altro che fiducia paternalistica nella “bontà” del Re.
Mancava totalmente il concetto di un’effettiva autorità statale per la difesa della giustizia sociale, di un’effettiva partecipazione di tutto il Popolo al Potere politico.
Ciò non solo perchè Locke era uomo dei suoi tempi e teorizzava quelle che erano le aspirazioni della classe economicamente dominante; ma anche perchè la sua concezione dello Stato era meramente amministrativa: mancava il concetto della personalità storica dello Stato, dello Stato come ente attivo e come volontà che attraverso i suoi istituti realizza i fini del popolo.
Sebbene nello sviluppo della storia europea possano apparire dei reazionari, il merito dei teorici dell’assolutismo di questo periodo sarà appunto quello di aver visto nettamente tale aspetto del problema.
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