La vera storia dei PROMESSI SPOSI – Alessandro Manzoni (Trama e commento)

Frontespizio dell’edizione de I Promessi Sposi illustrata da Gonin, edita a Milano nel 1840

PROMESSI SPOSI

Regia – Sandro Bolchi
Soggetto – Alessandro Manzoni
Sceneggiatura – Sandro Bolchi, Riccardo Bacchelli
Fotografia – Alberto Savi
Musiche – Fiorenzo Carpi

Scenografia – Bruno Salerno – Romana Arcelli Beltrachini
Costumi – Emma Calderini
Produttore – RAI Radiotelevisione Italiana
Paese – Italia
Anno – 1967
Formato – Miniserie TV
Genere – Sceneggiato televisivo di genere letterario e storico
Puntate – 8
Durata – 480 minuti circa (durata totale)
Lingua originale – Italiano
Colore – Bianco e nero
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Interpreti e personaggi
Giancarlo Sbragia (Narratore)
Nino Castelnuovo (Renzo Tramaglino)
Paola Pitagora (Lucia Mondella)
Lilla Brignone (Agnese)
Tino Carraro (Don Abbondio)
Elsa Merlini (Perpetua)
Luigi Vannucchi (Don Rodrigo)
Glauco Onorato (Il Griso)
Carlo Cattaneo (Il Conte Attilio)
Franco Parenti (Azzeccagarbugli)
Massimo Girotti (Fra Cristoforo)
Lea Massari (Gertrude – La Monaca di Monza)
Fosco Giachetti (Il principe, padre di Gertrude)
Germana Paolieri (La principessa, madre di Gertrude)
Salvo Randone (L’Innominato)
Cesare Polacco (Il conte zio)
Aldo Soligoj (Egidio)
Mario Feliciani (Cardinale Federigo Borromeo)
Gianni Bonagura (Tonio)
Ennio Groggia (Gervaso)
Mario Pisu (Il Podestà di Lecco)
Carlo Sabatini (Fra Galdino)
Gabriella Giacobbe (Donna Prassede)
Sergio Tofano (Don Ferrante)
Antonio Battistella (Sarto)
Bianca Toccafondi (La moglie del sarto)
Edoardo Toniolo (Antonio Ferrer)
Augusto Mastrantoni (Padre provinciale)
Raffaele Giangrande (Don Gonzalo)
Mauro Di Francesco (Menico)
Guido Lazzarini (Padre Felice)
Elio Crovetto (Uno sfaccendato)
Dino Peretti (Grigna Poco)
Michele Malaspina (il presidente del Tribunale di Sanità)
Neda Naldi (Madre Badessa)
I Bravi di Don Rodrigo attendono al varco Don Abbondio (Illustrazione di Gonin)
I promessi sposi è uno sceneggiato televisivo prodotto dalla RAI e andato in onda nel 1967, basato sull’omonimo romanzo di Alessandro Manzoni e diretto da Sandro Bolchi, che ne scrisse la sceneggiatura insieme a Riccardo Bacchelli.
Contrariamente a quanto si pensa di solito a causa della loro larghissima diffusione, I Promessi sposi non hanno mai avuto un riconoscimento incontrastato dalla critica italiana. E se non fosse stato per Francesco De Sanctis – il più grande critico della nostra storia – che seppe compiere del romanzo una analisi particolarmente penetrante e, soprattutto, seppe costruire su di esso la poetica realistica che doveva ispirare il suo metodo e il suo gusto nel periodo della maturità, oggi, probabilmente, assai maggior peso avrebbero nell’opinione comune i preconcetti, le riserve, gli atteggiamenti di antipatia, le limitazioni ideologiche che hanno accompagnato per oltre un secolo il capolavoro manzoniano. Al quale si rimproverò subito l’ispirazione cattolica, tanto da vedere in esso un’opera essenzialmente di apologia religiosa sotto il velo di un racconto romanzesco. E appunto ai propositi di edificazione, che sarebbero prevalenti, si fece risalire l’atteggiamento paternalistico verso i poveri, quel raccomandare loro la fiducia in Dio per dissuaderli da ogni azione, la messa al bando del motivo amoroso, l’esaltazione della Chiesa attraverso eroi positivi come fra’ Cristoforo e i1 cardinal Borromeo, la concezione provvidenziale della storia, e l’atmosfera un po’ chiusa e gretta di tutta l’opera. Lo stesso Gramsci non esitava ad affermare:
“Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj): come fra’ Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese Perpetua, la stessa Lucia ecc. … Questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali, e il Manzoni è benevolo verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. In un certo senso il Manzoni ricorda l’epigramma su Paolo Bourget che per il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito popolare di Tolstoj, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana”.

Ed è proprio a questi appunti di Antonio Gramsci che si sono riferiti – dilatandoli arbitrariamente e spesso travisandoli – i critici più recenti di tendenza laica, progressista o, addirittura, marxista. Vale dunque la pena che si riprenda il discorso dai suoi fondamenti più elementari, soprattutto dopo che la televisione ha proposto a milioni di telespettatori una sua interpretazione del romanzo, nella quale alcuni aspetti sottolineati da Gramsci trovano largo posto.

Don Abbondio, impersonato nella riduzione televisiva da Tino Carraro.
Contro il clero di cui è simbolo il pavido prete si abbatte
la critica di Manzoni educato al giansenismo
La prima idea del romanzo nacque, nella mente del Manzoni, nel corso del 1821, durante un soggiorno nella sua casa di campagna a Brusuglio. Per ingannare il tempo, il nostro autore aveva portato con sé alcuni libri e fra gli altri la storia milanese di uno scrittore del seicento, il Ripamonti, e l’Economia politica del Gioia. Nella prima egli trovava alcune vicende che verranno poi utilizzate nel romanzo (la monaca di Monza, l’Innominato) e soprattutto un quadro, sia pure confuso della Lombardia sotto il dominio spagnolo, nell’altra le notizie sulla carestia del 1630 e sull’incapacità del potere pubblico a frenare la prepotenza dei vari signori. Fu la lettura di una ‘grida’ (vale a dire di uno dei tanti decreti emanati dall’autorità, terribili nelle parole, inutili perché mai applicati) che colpì in modo particolare il Manzoni: in essa, infatti, si parlava di matrimoni contrastati per mezzo di minacce e di ricatti che si operavano nei confronti dei curati che dovevano celebrarli. Lo spunto parve buono al Manzoni e su di esso prese a riflettere tanto da avere ben presto il quadro di una vicenda privata che si muoveva, sullo sfondo di grandiosi avvenimenti pubblici.
Il romanzo, infatti, com’è noto, narra la storia di due popolani, Renzo e Lucia, il cui matrimonio viene osteggiato dal capriccio e dalla torbida passione per Lucia di un signorotto del luogo, don Rodrigo. Fallito il tentativo dei due giovani di sposarsi lo stesso, cogliendo di sorpresa il loro curato, e fallito, contemporaneamente, il tentativo di don Rodrigo di rapire la ragazza con la forza, i due promessi sposi abbandonano il paese e si dividono, Renzo si reca a Milano, si trova implicato, quasi senza saperlo, nei tumulti per il pane e deve espatriare. Lucia viene messa in un convento, viene ugualmente rapita da un potentissimo signore, l’Innominato, per far piacere a don Rodrigo (e con, la complicità di una monaca, la monaca di Monza), ma dallo stesso Innominato – convertitosi proprio sotto l’impressione di quest’ultima malvagità e delle parole di Lucia – viene liberata.
La peste che si abbatte sul milanese e che uccide don Rodrigo, scioglie i fili della vicenda e permette, alla fine, che Renzo e Lucia raggiungano il loro scopo.

La scelta di questa materia non fu certamente casuale: in essa confluirono le esperienze personali del Manzoni, la sua formazione culturale, le sue persuasioni letterarie e la situazione storica nella quale si trovava immerso.

Renzo (Nino Castelnuovo) e Lucia (Paola Pitagora), i giovani protagonisti del romanzo di Manzoni.
Per la prima volta due giovani del popolo sono i protagonisti di una storia

Cominciamo dalle esperienze personali. Com’è noto Manzoni era nato a Milano il 7 marzo 1785 da Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria (figlia del celebre Cesare Beccaria). La madre, però, quando Alessandro era ancora ragazzo si era divisa dal marito ed era passata a convivere con un altro uomo, anch’egli celebre, Carlo Imbonati. Nonostante che il Manzoni professi una grande ammirazione per l’Imbonati e abbia il coraggio di scrivere un’ode in occasione della sua morte (avvenuta nel 1805, quando il nostro aveva vent’anni), nonostante che egli faccia proprie le idee più avanzate dell’illuminismo e viva a Parigi nell’ambiente assai aperto degli ideologi, non sembra verosimile che la situazione familiare, la condizione irregolare della madre non abbia avuto un’eco profonda nella psicologia del giovinetto. Non è un caso che egli non parli quasi mai del padre e che i motivi erotici vengano evitati anche nella sua produzione giovanile, quando egli era volterriano, accanitamente anticlericale e lontanissimo dalla conversione religiosa. Si pensi che ci troviamo negli anni a cavallo fra il 700 e l’800, in una regione, come la Lombardia, nella quale i ceti sociali elevati erano particolarmente conformisti e tradizionalisti e nella quale la rottura di un matrimonio non poteva non provocare scandalo. Si può, quindi, comprendere che il riserbo, il pudore di Alessandro nei confronti degli argomenti erotici fosse una sorta di difesa contro l’accusa di immoralità cui poteva essere soggetta la sua famiglia, e che la vicenda di un matrimonio contrastato e poi finalmente concluso gli apparisse come una sorta di rivalsa psicologica e come il capovolgimento della situazione che egli aveva sofferto e che, ai suoi tempi, era più frequente: di un matrimonio concluso e poi contrastato dal sopraggiungere di nuovi desideri e di nuove inquietudini. Questa, dunque, la matrice del pudore manzoniano, che sembra raggiungere eccessi disumani, quando Lucia, durante la fuga dal villaggio, respinge “dolcemente, e con destrezza” persino l’aiuto che Renzo “le offriva nei passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sè, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente”, o quando la stessa Lucia, nel famoso addio alla sua terra, guarda la chiesetta dove l’amore doveva “venir comandato, e chiamarsi santo”, sì che ella non avesse più ad arrossire pensando alla casa straniera dove sarebbe andata da sposa. Pudore, insomma, che non è imposto dall’esterno, dalla volontà di esaltare la concezione cattolica dell’amore e del peccato, ma scaturisce da una situazione personale profondamente sofferta, da una sorta di avversione e di diffidenza per il contatto fisico, che non sia riscattato dal matrimonio, determinato da un nodo psicologico assai complesso.

“Questo matrimonio non s’ha da fare”: l’incontro di Don Abbondio con i Bravi 
    

Ho detto che confluisce nei Promessi sposi anche la formazione culturale del Manzoni. E dico pure che essi sono il frutto di quel travaglio ideologico che portò alla sua conversione religiosa e al suo passaggio dalla produzione classicheggiante degli anni giovanili alle tesi romantiche dell’uomo maturo. Ma la conversione del Manzoni non è un colpo di fulmine né essa porta il nostro scrittore a rinnegare gli ideali della sua giovinezza.

Alessandro aveva studiato, si, da ragazzo in vari collegi di frati (prima Comaschi e poi Barnabiti), ma ne era uscito imbevuto di idee illuministiche e volterriane, che si manifestano nella sua prima opera, il Trionfo della libertà, esaltazione della rivoluzione francese e invettiva contro la superstizione cattolica. Nel 1805 (dopo la morte di Carlo Imbonati) aveva seguito la madre a Parigi e qui era entrato in contatto con la cultura europea, aveva frequentato i circoli dei nuovi ideologi, aveva stretto amicizia con Claudio Fauriel (uno dei promotori del romanticismo in Francia). Le opere di tutto questo periodo sono ispirate da un severo moralismo, sia pure temperato da un’alta comprensione degli uomini e da un atteggiamento insieme grave e pietoso verso di essi. Non è da stupire, quindi, se su di esso si innesta ben presto una vera e propria concezione religiosa. Accelera tale processo il matrimonio, avvenuto nel 1808, con Enrichetta Blondel, la quale, benché calvinista, mette Alessandro a contatto con il calore autentico della sua fede; lo influenzano due giansenisti, il padre Degola e il vescovo Tosi, con il fascino della loro persuasione aliena da ogni compromesso o aggiustamento di tipo gesuitico.

Perpetua (l’attrice Elsa Merlini)

Nel 1810 si compie, con la conversione, questa maturazione ideologica e psicologica. Ma in essa non vi è soluzione di continuità con gli ideali di uguaglianza, di libertà di rinnovamento civile e culturale, cui lo aveva educato l’illuminismo. Di qui il carattere della religiosità manzoniana che lo spinge a sottolineare gli elementi evangelici ed egualitari del cristianesimo, e, mettere in primo piano la fede e la speranza dei poveri, spesso tanto più autentiche di quelle degli stessi sacerdoti, a non nascondersi le piaghe che avviliscono la Chiesa, a rifiutare ogni forma di superstizione, cioè ogni forma di fede che sia mortificazione della ragione. Di qui, nei suoi Inni sacri la rievocazione dei miti religiosi nella loro dimensione popolare, di speranza, di giustizia e di riscatto, per cui il Natale viene rappresentato come esso si configura nella fantasia del popolo e l’angelo di Dio non si rivolge “alle vegliate porte” dei potenti, ma si rivela “tra i pastor devoti, al duro mondo ignoti”; e la madonna apprezza assai più la “spregiata lacrima” della femminetta che l’incenso e i doni dei ricchi. E nella Pentecoste, com’è stato ben detto, “il grandioso quadro della Chiesa militante, nella prima parte; l’esaltazione, nella seconda, della nuova parola di libertà, di. uguaglianza e di giustizia che, si dilata in ogni angolo della terra, procedono incalzati da un impetuoso afflato lirico, che culmina nell’epilogo corale, inno e preghiera in cui si fondono e si esaltano, proiettate su uno sfondo di solenne meditazione religiosa, tutte le passioni e le angosce e le speranze degli uomini”.

A questa concezione religiosa si accompagna l’elaborazione letteraria del Manzoni, vale a dire la conquista di quella poetica realistica che sta alla base, del suo romanzo. I punti chiave di tale poetica sono il rapporto tra storia e poesia e la tendenza al vero. Niente è più interessante, secondo Manzoni, della storia e il poeta non deve inventare i fatti, ma interpretare quelli accaduti. Tuttavia la storia ci fornisce il racconto degli eventi, ma li guarda in certo senso dal di fuori e si occupa solo dei fatti e delle persone sui quali esistono documenti o testimonianze. La poesia, invece, ci fa scendere nel segreto dell’anima degli uomini che sono stati protagonisti della storia e ci fa conoscere i loro più riposti sentimenti; e ci consente di mettere in luce le passioni degli uomini celebri, ma anche le speranze e le delusioni dei volghi che sono passati sulla terra senza che alcuno storico potesse registrarne la presenza spirituale. Questo culto del vero storico deve guidare l’artista anche nelle parti nelle quali – non potendo riferirsi a documenti – egli deve inventare vicende e personaggi, ma deve inventarli, in modo che illuminino una situazione storica, non tradiscano le caratteristiche del tempo, sappiano darne il significato e il colore.

Il lazzaretto degli appestati ricostruito per la televisione. Qui Renzo ritroverà Lucia

“Per illustrarvi la mia idea fondamentale sui romanzi storici – scriveva al Fauriel – e mettervi nelle migliori condizioni per correggerla, vi dirò che li concepisco come una rappresentazione di una condizione determinata della società, per mezzo di fatti e caratteri così simili al vero che si possa riputarli come una vera storia or ora scoperta.

Quando eventi e personaggi storici vi si trovano mescolati credo che occorra rappresentarli in maniera rigorosamente storica”.

Queste idee erano già state elaborate nella preparazione delle due tragedie, Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi. E in un’opera nella quale si raccolgono i frutti dei suoi studi sulla storia longobardica (compiuti appunto per scrivere l’Adelchi) vengono in primo piano la denunzia dell’oppressione, la diffidenza verso la classe dirigente, la considerazione dolorosa della moltitudine oppressa, di cui non resta traccia nella storia, quando questa viene intesa come opera soltanto delle grandi personalità e non come il risultato di un intreccio complesso e molteplice di volontà diverse nel quale hanno il loro posto anche le aspirazioni e le azioni dei diseredati. Insomma quelle idee di libertà, di giustizia, di sollecitudine per gli oppressi e gli sfruttati, di avversione per i grandi personaggi della politica e delle armi (gli eroici furfanti), di odio per i furbi che speculano sull’ignoranza e la ingenuità del popolo, che ritroviamo nella struttura del romanzo. Al quale il Manzoni si preparò con il consueto scrupolo storico, studiando non solo le opere del Ripamonti, del Capriota e del Verri, ma leggendo una quantità di memorie particolari, tutti gli scritti del cardinal Borromeo e i gridari che davano un’idea della legislazione dell’epoca. In tal modo egli poté fornirci un quadro abbastanza fedele degli avvenimenti dei primi decenni del secolo XVII in Lombardia (gli intrighi politici, la carestia, l’invasione dei lanzichenecchi, la peste), poté far rivivere alcuni personaggi reali (il cardinale Borromeo, l’Innominato, la monaca di Monza), ma poté anche intrecciare questa storia conosciuta con una vicenda privata della quale erano protagonisti personaggi inventati (Renzo, Lucia, don Rodrigo, don Abbondio, fra’ Cristoforo e altri); ma veri anch’essi, perché completavano e integravano quanto veniva narrato dalla storia conosciuta.

La fame a Milano (a sinistra) e la fuga di Renzo, indicato come un untore, sul lugubre carro dei monatti

“Faccio il possibile per compenetrarmi dello spirito del tempo – egli dice – per viverci dentro. E quanto allo svolgersi degli avvenimenti, e all’intrigo, penso che il mezzo migliore di non fare come hanno fatto gli altri sia di applicarsi a considerare nella realtà il modo di agire degli uomini e di considerarlo soprattutto in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco. In tutti i romanzi che mi è accaduto di leggere, mi par di scorgere un certo sforzo per stabilire rapporti interessanti e imprevedibili fra i diversi personaggi, per portarli uniti sulla scena, per escogitare vicende che influiscono insieme e in vari modi sul destino di tutti, insomma un’unità artificiosa che non si riscontra nella vita reale”.

La vita reale, dunque, è al centro della sua attenzione: la vita reale conosciuta attraverso la testimonianza storica e quella ignota – ma non per questo meno vera – coperta dal silenzio che è steso sugli affetti e sulle speranze e le sofferenze delle moltitudini.
Infine confluiva nella scelta dell’argomento e nella sua trattazione, la situazione storica di quel periodo e la passione civile del Manzoni. L’ideazione del romanzo coincide con quel momento della nostra storia politica e sociale che vede i gruppi di patrioti uniti nell’aspirazione all’unità e all’indipendenza dell’Italia, senza che le divisioni fra cattolico-liberali, liberali e partito di azione (divisioni inevitabili quando il problema supererà la fase di semplice aspirazione e diventerà concreta prospettiva politica) fossero ancora insorte a caratterizzare i diversi gruppi e i diversi programmi.
Dire che Manzoni è un cattolico-liberale significa proiettare sul Manzoni degli anni venti una classificazione politica che potrà essere giusta per lui (e per molti altri patrioti) almeno dieci anni più tardi. Significa, cioè, falsare gli atteggiamenti politici del Manzoni nel momento in cui creava i suoi capolavori e volersi nascondere che, allora, la sua ideologia coincideva con quella del Conciliatore, con quella dei martiri del ’21 con quella cioè più attivamente rivoluzionaria che operasse in Italia e che egli partecipa a “quell’importante e decisivo momento storico che consacra il trapasso di molte coscienze italiane dalle persuasioni illuministiche alla presa di possesso delle grandi idee democratiche europee”.
La posizione ideale del Manzoni, insomma, sembra simboleggiare lo svolgimento della cultura lombarda che dal Caffé (la rivista illuministica dei Verri) passa al Conciliatore (la rivista romantica di Silvio Pellico), ma nel Conciliatore mantiene fermi i principi di libertà, di fiducia nella ragione, di lotta contro i privilegi, le superstizioni, i residui di una società arretrata e feudale che erano stati alla base della polemica illuministica, anche se li nutre dei nuovi fermenti propri del romanticismo (un sofferto spirito religioso, una maggiore fiducia nel popolo, una più chiara visione del problema nazionale, una più conseguente polemica contro le regole del classicismo). E siffatta posizione ideale è in perfetta consonanza con le esigenze, allora per la prima volta concretamente prospettate, dell’unità territoriale e politica dell’Italia, esigenze particolarmente sentite dai ceti borghesi e, in particolare, da quelli più avanzati e moderni della Lombardia.
Proprio quando Manzoni si ritirò nella villa di Brusuglio si era conclusa, con la persecuzione con l’arresto, l’attività del nucleo di intellettuali che aveva dato vita qualche anno prima al Conciliatore. Gli amici di Alessandro erano stati gettati nelle carceri austriache da cui usciranno solo molti anni dopo (o non usciranno più): lo stesso Alessandro aveva temuto di essere coinvolto negli arresti.

Qualche settimana prima si era anche conclusa quell’impresa che aveva ispirate le strofe appassionate della sua ode, Marzo 1821. La meditazione su un periodo particolarmente triste della nostra storia (quello della dominazione spagnola), la rappresentazione dell’inerzia e dell’insipienza della classe dirigente, la necessità della fiducia e della speranza, che egli adombrava nella vicenda del romanzo, doveva apparirgli come la continuazione su un altro terreno dell’impegno e della lotta dei suoi amici.

I tumulti della fame a Milano (Illustrazione di Golin)

Questo è il complesso intreccio di ragioni che sorreggono l’ispirazione ideale del romanzo. Certo, nell’ideologia manzoniana non mancano limiti anche notevoli: ma sono i limiti della classe a cui egli apparteneva (la borghesia) e del periodo storico in cui si trovava ad operare. E la borghesia era liberatrice, sì, ma fino ad un certo punto; era democratica, sì, ma a certe condizioni: e l’atteggiamento borghese verso il popolo era ed è sempre venato di “razionale pessimismo e di aristocratica ironia”, senza tuttavia che debba essere assimilato al paternalismo cattolico. Ma la borghesia, in quel periodo, era anche la classe sociale più progressiva, quella che con la sua affermazione doveva distruggere il vecchio mondo feudale, promuovere l’unità e l’indipendenza nazionale, creare con il suo stesso sviluppo la classe antagonista che avrebbe proposto un nuovo ordinamento della società. Se non vogliamo, quindi, proiettare sul Manzoni la ombra di concezioni sociali che solo trent’anni dopo vedranno la loro affermazione, dobbiamo valutare la sua ideologia borghese in tutta la sua carica progressiva e rinnovatrice.

Alle persuasioni che abbiamo visto sorreggere l’ideazione del romanzo corrisponde anche la soluzione che Manzoni volle dare al problema della lingua. Finché scriveva le liriche o le tragedie egli, infatti, poteva ancora, in qualche modo, utilizzare il linguaggio tradizionale, sia pure depurato dalle sue punte più auliche e raffinate. Ma quando intraprese la stesura del romanzo, di un’opera cioè che per definizione si rivolgeva a un pubblico più vasto della consueta ristretta cerchia di letterati, il problema della lingua divenne fondamentale. E Manzoni non aveva punti d’appoggio nella tradizione. Né la prosa altamente intonata del classicismo, né quella spezzata e fervida, ma intensamente lirica del Foscolo potevano servirgli. Aveva bisogno di una prosa narrativa e dovette inventarla quasi completamente per proprio conto. Al centro di tale prosa v’è la abolizione della distinzione (creatasi in Italia fin dalle origini della nostra letteratura) fra lingua letteraria e lingua parlata. E tale distinzione poteva essere abolita solo tenendo fermo il concetto che ogni lingua è regolata esclusivamente dall’uso. La lingua nazionale non può essere costruita artificiosamente scegliendo le parole che sembrano più proprie e più belle dai vari dialetti, ma viene determinata storicamente da un dialetto che finisce per espandersi a tutta la nazione. Nel caso della Francia, per esempio, è il dialetto di Parigi, in quanto le circostanze storiche hanno fatto di quella città ben presto la capitale della nazione. Per l’Italia è il dialetto di Firenze, perché, pur non avendo allora l’Italia una capitale, per una serie di vicende Firenze aveva esercitato per alcuni secoli una sorta di egemonia culturale sul resto del paese.
“La scelta di un idioma che possa servire al caso nostro – scrive lo stesso Manzoni – non potrebbe esser dubbia; -anzi è fatta. Perché è appunto un fatto notabilissimo questo che, non essendoci stata nell’Italia moderna una capitale, che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province ad adottare il suo idioma, pure il Toscano per la virtù di alcuni scritti famosi al loro primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in molti altri, e resa facile da alcune qualità dell’idioma medesimo, che non importa di specificare qui, abbia potuto essere accettato, e proclamato per lingua comune d’Italia, dare generalmente il suo nome (così avesse potuto dar la cosa) agli scritti di tutte le parti d’Italia, alle prediche, ai discorsi pubblici e anche privati, che non fossero espressi in nessun altro dei diversi idiomi d’Italia. E la ragione per cui questa denominazione sia stata accettata così facilmente, è che esprime un fatto chiaro, uno di quelli la di cui virtù è nota a chi si sia”.
In tal modo il Manzoni non risolveva certo la questione della lingua (come credette di aver fatto parecchi anni dopo), ma risolveva il problema che lo assillava in quanto scrittore: di avere uno strumento per creare una letteratura realistica, accessibile a tutti, di utilizzare una lingua veramente parlata (e non ricavata dai libri) che, aprisse la strada a una prosa narrativa moderna in Italia.
Dall’alto del punto di vista che abbiamo messo a fuoco con quanto si è detto finora, bisogna, dunque, guardare il romanzo manzoniano. La passione egualitaria che il Manzoni mutuava dalla sua formazione illuministica e trasferiva nella nuova fede sottolineandone gli aspetti più evangelici e popolari, il senso della storia, proprio dei romantici, e il mito del popolo, le speranze di un riscatto nazionale affidato alle nostre forze, proprie dei patrioti del Conciliatore, la stessa religione vista come conforto per gli umili, come speranza in un mondo migliore, ma anche come metro per misurare le ingiustizie della condizione presente, si fondono nella narrazione e danno vita ai grandi personaggi dei Promessi sposi. I giusti, che pur appartenendo alla casta dei potenti si schierano con i diseredati: fra’ Cristoforo, il cardinale Federico, lo stesso Innominato dopo la conversione. I poveri, che tuttavia sanno resistere con la loro semplicità e schiettezza di affetti, con la loro umana solidarietà; Renzo, Lucia, una folla di uomini semplici, artigiani, contadini, barcaioli e così via. I potenti, che credono di poter perpetrare ogni sopruso, e non sanno che possono essere travolti dalle vicende della storia e dalla punizione divina: don Rodrigo, il conte Attilio. Gli intellettuali al servizio dei potenti, su cui si esercita l’ironia e il disprezzo dell’autore: don Abbondio, Azzeccagarbugli, per certi aspetti don Ferrante.

Tutti questi personaggi, caratterizzati nella loro specifica individualità psicologica, vivono in un mondo reale dove trovi il palazzotto del signore e il villaggio dei contadini, i pranzi dei ricchi e le magre cene dei poveri, gli incontri diplomatici ad alto livello degli uomini politici e la franca oratoria di fra’ Cristoforo, le strade polverose, le fughe, i viaggi, le sommosse e i grandi avvenimenti storici: i lanzichenecchi, la peste. Mai nessuno scrittore italiano era riuscito a narrare con tanta forza, con tanta verità, con tanta semplicità. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di far protagonista della propria opera due popolani, di affermare in tal modo il diritto alla storia delle classi subalterne; nessuno aveva con tale evidenza subordinato i potenti ai diseredati, nessuno aveva mai mostrato tanto amore per la realtà delle cose e la realtà delle anime.

I tumulti della fame a Milano nella riduzione televisiva
Nasce così anche in Italia il grande romanzo moderno. E la sua portata storica non è stata ancora pienamente valutata, se anche un uomo come Gramsci ha potuto manifestare nei suoi confronti le riserve a cui ho accennato. Nuoce al Manzoni l’ombra della chiusura moralistica, della cultura pedantesca, dell’aridità umana, del moderatismo paternalistico che caratterizzarono l’ultima parte della sua vita, quando si chiuse il periodo creativo ed egli subì un rapido processo d’invecchiamento e di involuzione (durante il quale egli rinnegò, in un certo senso, la sua stessa opera).
Nuoce ancor più al Manzoni il confronto sempre ricorrente con i grandi scrittori realisti russi e francesi dell’Ottocento. Ma in entrambi i casi si pecca di antistoricismo.
Nel primo perché si attribuiscono al Manzoni della maturità, le tare del Manzoni invecchiato. Nel secondo perché non si tiene conto di alcune date.
“Negli anni 1821-1825 il Manzoni non aveva a sua disposizione, per l’obbiettivo che si era proposto, niente altro che il romanzo francese del Settecento e Walter Scott: Stendhal nel 1820 lavorava, proprio a Milano, al suo De l’Amour e solo nel 1826, con l’Armance, si avviava al romanzo, mentre Balzac era ancora ben lontano dal mettere mano ai primi tomi della sua grande Camédie humaine. In quanto a Tolstoi, a cui troppo di frequente si confronta il Manzoni con evidente stortura storica e perciò con ingiusto proposito riduttivo, doveva seguire a mezzo secolo di distanza avendo ormai dietro di sé una splendida tradizione di romanzo e soprattutto l’attivo fermento creativo e intellettuale degli scrittori e dei pensatori democratici della Russia ottocentesca. Il Manzoni, invece, ebbe in Italia immediati predecessori e contemporanei di troppo più piccoli di lui (fu lui a precedere De Sanctis, e non viceversa!) e tuttavia, con le sue sole forze, ha condotto ad estrema maturazione un complesso processo intellettuale e morale che affonda le radici nel suolo patrio e in quello europeo del secolo precedente, e si è costituita una poetica e una teoria linguistica-massimamente efficienti deducendole dalla sua personale meditazione e dal suo stesso travaglio creativo, sperimentando e realizzando, come scrittore, una forma d’arte interamente nuova e ricca di futuro. Ha superato così i limiti dell’illuminismo e ha conferito una precisa e originale fisionomia al romanticismo italiano; ha inventato il personaggio moderno, il personaggio di romanzo che invano cercheremo nell’Ortis e nel teatro alfieriano; ha saltato oltre l’autobiografismo, la “réverie” lirica e il mero patetico; ha felicemente calato nella narrazione uno spirito religioso polemicamente antifilisteo (mentre la Francia post-rivoluzionaria esprimeva, a livello cattolico, il veramente reazionario Chateaubriand); ha sottratto alla storia il carattere di semplice cornice scenografica e ne ha rappresentato invece la tragica connessione cori il destino degli uomini, grandi e piccoli; ha oggettivamente delineato i personaggi senza sacrificarne la natura individuale al rigido disegno di una provvidenzialità inelusibile, e ha piuttosto insistito rigorosamente sul tema della responsabilità morale di ogni individuo aprendo nuovi orizzonti alla più sottile, penetrante e anche spregiudicata analisi psicologica; ha dimostrato la legittimità artistica dei personaggi negativi anticipando così il tipico dei grandi romanzi realisti; ha saputo soprattutto operare un montaggio sapiente dei vari piani del romanzo, eliminando senza indulgenza ogni divagazione esorbitante e ogni compiacimento edonistico, e realizzando, con fulminei raccordi a distanza e ben bilanciate, corrispondenze interne, un- organismo romanzesco perfettamente equilibrato”.
Lungi dall’essere mortificati, dunque, dal confronto con i russi e i francesi, I Promessi sposi appaiono in una giusta prospettiva storica – come gli antesignani del grande romanzo storico realistico dell’Ottocento. Questo è il posto che loro spetta e la luce sotto la quale essi debbono essere letti, valutati e gustati.
Quanto la riduzione televisiva abbia tenuto conto della ideologia che li sottende, della situazione storica che li ispira, del ritmo narrativo che li sorregge, giudichi lo stesso spettatore. La mia impressione è, nel complesso, negativa.
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