TRANQUILLO MARANGONI – Incisore

TRANQUILLO MARANGONI

Tranquillo Marangoni (Pozzuolo del Friuli, 1º aprile 1912 – Ronco Scrivia, 26 marzo 1992) è stato un incisore italiano. È stato il principale xilografo italiano del Novecento.

PREMESSA

L’interesse per l’incisione, anzi, si può ben dire, la passione per l’incisione, è rinata in Italia negli anni Trenta del secolo scorso.
Prima l’incisione era considerata una forma di arte applicata, un ramo, sia pure più raffinato di altri, dell’artigianato e gli artisti vi si dedicavano a tratti e raramente, soltanto come in un atto di abbandono al bisogno di uno sfogo momentaneo che potesse essere libero dai grossi e lunghi impegni della pittura, che potesse raccogliere – direi senza responsabilità – un moto, un impulso intimo, una confessione destinata a restare un segreto. Giovanni Fattori, per esempio, durante la sua lunga vita, lavorò all’acquaforte 180 lastre senza proporsi di esporne o di venderne una sola; di molte egli non curò nemmeno la stampa.
Soltanto molto tempo dopo la morte, nel 1925, in occasione del centenario della nascita, si eseguì a Firenze una stampa di 166 di quelle lastre; le altre, lasciate in totale abbandono dal Maestro, si erano guastate.
E’ stato così che venne alla luce, postuma, l’opera di uno dei più forti acquafortisti italiani dell’Ottocento. La grande tradizione settecentesca, che a Venezia aveva portato i nomi di Antonio Canaletto, Giambattista Giandomenico e Lorenzo Tiepolo, Giambattista Piranesi, Bernardo Bellotto, Michiel Marieschi, Marco Ricci e Luca Carlevarijs, s’era spenta nelle mani di una lunga schiera di abilissimi bulinisti riproduttori che non avrebbe potuto nulla opporre al rapido avanzare delle tecniche fotomeccaniche.
Nell’Ottocento s’era radicata l’abitudine di valutare l’incisione soltanto sotto l’aspetto della sua perfezione tecnica, meticolosa e davvero meravigliosa, che esigeva puntigliosa conoscenza di regole, sicura padronanza di procedimenti complicati, lungo, metodico esercizio della mano. Insomma s’era presa l’abitudine di cercare nell’incisione tutte le qualità di un artigianato finito e non si pensava all’atto creativo, alla fantasia dell’arte, cui fosse lecito, per le esigenze dell’espressione, anche uscire dalle regole sacramentali. Da ciò, dunque, il collocamento di tutti i generi di incisione – bulino, acquaforte, puntasecca, acquatinta, xilografia -e della litografia nei limiti dell’artigianato o, al massimo, del le arti minori, con compiti meramente riproduttivi o illustrativi.
Mancarono in Italia temperamenti della forza di un Daumier o di un Toulouse-Lautrec, e mancarono gli altri spiritosi e gustosi litografi dell’Ottocento francese, sempre capaci di toccare con acuto rilievo grafico e con punte di amabile cattiveria tutti i lati del complesso costume di un grande Paese, ricco di differenziazioni sociali e culturali formatesi in un lunghissimo arco di storia.
In Italia, nei primi anni del secolo scorso, il gusto per l’incisione era tanto decaduto che, auspice non felice Gabriele D’Annunzio, si scambiarono per prodigi gli scialbi legni di Adolfo De Karolis, soltanto untuosi di retorica liberty.
Negli anni intorno al 1920, un gruppetto di xilografi – Francesco Gamba, Armando Cermignani, Duilio Cambellotti, Emilio Mantelli, Publio Morbiducci e forse qualcun altro – venne raccolto da Ettore Cozzani ad ‘ornare’ i volumetti della “Eroica”, piccoli legni di filo, certamente meno pigri e incolori di quelli del De Karolis, anzi alle volte protesi a cercare una vera vibrazione espressiva nel puro segno della sgorbia e nel contrapporsi del bianco e del nero, ma pur sempre falsati dall’eccitazione retorica che veniva dai testi, dal gusto svolazzante di Cozzani e dalla mescolanza che si faceva allora di liberty e di futurismo. Nel 1934, editore Ulrico Hoepli, Lamberto Vitali pubblicava il primo studio organico e moderno sull’incisione italiana (“L’incisione italiana moderna”) e l’autore, nella presentazione del volume, avvertiva…”Le opere esaminate appartengono all’incisione su rame e alla litografia; non ho creduto di considerare invece la produzione xilografica, perchè essa è di gran lunga meno importante per qualità e soprattutto per quantità”. Sarebbe difficile ritoccare oggi quel giudizio anche se nel 1934 era già apparsa e nota la produzione di Bruno da Osimo il cui segno sul legno di testa restava crudo a dare una debole visione paesistica o manierate eleganze decorativo-mistiche.
Oggi, tuttavia, permane in una parte della critica la tendenza a porre delle riserve circa l’autosufficienza dell’incisione: si vorrebbe sostenere che soltanto una lunga e nutrita esperienza pittorica può convincere dell’effettiva esistenza di facoltà creative.
La prova data dal solo fatto incisorio non sarebbe sufficiente. Ma anche questa è una posizione critica ormai intaccata dal lavoro di incisori puri, lavoro che indubbiamente ha costituito i fatti di un linguaggio autonomo e valido per se stesso, al di fuori di ogni compromesso e di ogni dipendenza dalla pittura. La tradizione incisoria in Friuli non ha molto rilievo, ma si apre con il nome di Luca Carlevarijs, nato a Udine il 20 gennaio 1663, trasferitosi a Venezia a sedici anni dove mori di apoplessia nel 1730.
Il Carlevarijs, di famiglia venuta di Spagna in Carnia, a Luincis, e quindi trasferitasi a Udine dove il 15 agosto 1614 era nato il padre, Giovanni Leonardo, pur egli eccellente disegnatore, fu il maestro del Canaletto e, come abbiamo visto, ha lasciato il suo nome fra quelli dei famosi incisori veneziani del Settecento.
Un incisore che ha raggiunto chiara fama nei giorni nostri è Fabio Mauroner, nato a Tissano nella Bassa Friulana nel 1884 e mancato a Venezia nel 1948.
Tuttavia tanto il Carlevarijs quanto il Mauroner, friulani di nascita e di sentimenti, furono prettamente artisti veneziani.
Nell’Ottocento anche a Udine, come in ogni altro luogo d’Italia e fuori, si ebbe un fiorire della litografia, soprattutto per l’illustrazione del libro, e assai popolari furono le tavole di G.L. Gatteri per l’edizione del 1852 delle poesie di Pietro Zorutti: son tavole alle quali ancor oggi si riconosce la felice adesione al migliore e veramente vivo spirito zoruttiano quello burlesco e satirico – condotte con efficacia descrittiva, con animato disegno e con ottima pastosità chiaroscurale, senza pedanterie accademiche e con calda interpretazione di tipi, di costumi e di paesaggi.
Naturalmente anche la cultura grafica del Gatteri attinge largamente fuori del Friuli e vi si sentono influenze della più conosciuta illustrazione litografica francese del tempo.

Mi è parsa utile questa premessa per creare un ambiente all’arte di un incisore nostro contemporaneo, Tranquillo Marangoni, nato il 1 aprile 1912 a Pozzuolo del Friuli, vissuto per lungo tempo a Cave di Selz, una piccola frazione di Ronchi dei Legionari vicino a Monfalcone, e morto a Ronco Scrivia (Genova), il 26 marzo 1992.

La natura del Marangoni è immediatamente rivelata dalla scelta della xilografia come mezzo incisorio, e della xilografia sul legno di testa scavato netto con la punta tonda e aguzza del bulino e non con la morbida unghia della sgorbia. E’ un tipo d’incisione che vuole un bianco e un nero, un solo bianco e un solo nero, senza colate in un’atmosfera tonale, un bianco e un nero decisamente contrapposti in un serrato alternarsi, in uno scambiarsi continuo e minuto di effetti destinati a legarsi, non nell’amalgama tonale, ma nella concitazione romantica della visione, non, dunque, solo nella fattura tecnica della tavola, ma, di più, nella ventata fantastica.
Marangoni entra d’impeto, direi con furia, nella zona dell’iperbole immaginativa dove il dato di natura vi appare ancora, ma già diventato emozione, trasfigurazione lirica. Marangoni è un narratore di cose riviste nel sogno, se non addirittura riportate alla superficie dal subcosciente.

Reti a Caorle (1956)

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L’educazione di Marangoni non fu regolare. Nella monografia delle edizioni “La Toppa” di Giulio Topi di Lugano, pubblicata nel 1954 e che riproduce magnificamente quindici tavole dello xilografo friulano, Marangoni stesso avverte…

“Scuole non frequentai chè il mio compito fu quello di conoscere le fatiche per la conquista del pane. La mia esperienza, dopo essere stato disciplinato da mia madre alla verità e cocciutaggine friulana, si formò nell’ambiente del lavoro al quale mi sento orgogliosamente legato. Senza alcuna ombra di retorica. E la mia opera, almeno nelle mie intenzioni, vorrebbe riflettere questo mondo”.

In queste parole, che sembrano scandite dal durissimo bulino, l’artista indica la sorgente del suo mondo morale; in altre accenna al perchè scelse come mezzo di espressione la xilografia…

” …venni preso fortemente dal “mal del legno”, come dicono gli amici. Male che del resto, sebbene sotto altra forma, già contagiava i miei antenati e che, attraverso il banco di falegname di mio padre, mi venne trasmesso”.

“…il primo chiodo che appuntii a forma di bulino fu verso la fine del 1942 per incidere il mio primo ex-libris, incisione che feci in treno mentre mi recavo al lavoro in quel cantiere navale di Monfalcone che, grazie a Dio, mi tiene ancora prigioniero”.

Che il lavoro che si svolge nel grande cantiere navale entri nella formazione morale dell’artista, può essere vero, ma soltanto in parte; la ragione della scelta della xilografia e, più particolarmente, dell’incisione del legno di testa, più che ad un atavismo del “mal del legno”, si trova probabilmente nell’intima aderenza di questa tecnica al temperamento di Marangoni che risulta dal raro accordo di una volontà ferma, risoluta (“cocciutaggine friulana”), con una fantasia lirica che riduce la visione naturalistica ad una concentrazione di ritmi lineari e con un intenso trasporto per le iperboli che dapprima son gotiche e che poi, via via, diventano surrealiste.
Quel primo ex-libris inciso in treno sulla fine del 1942 reca il motto “ad majora” che già allora, e da molti anni, piuttosto che indice di una coscienza volontaria, di una “cocciutaggine friulana”, poteva sembrare un’ingenuità provinciale, indice di un gusto antiquato e di riporto.
Cavato sul legno di filo, quell’ex-libris mostra che a Marangoni trentenne non s’era ancora rivelata la sua propria personalità e che quindi, salvo un’inclinazione piuttosto generica verso il legno, l’artista era lontano dall’intuire la genuinità e la forza di quella materia come mezzo per il suo linguaggio figurativo.

C’è però già un’indicazione abbastanza chiara di una particolare e personale preferenza espressiva che andrà rapidamente determinandosi e che costituirà l’essenza stilistica inconfondibile dello xilografo maturo: la scelta decisa del bulino al posto della sgorbia, del segno netto, in se stesso duro e tagliente, al posto della pastosa macchia dell’unghia.

Sempre nelle edizioni de “La Toppa” di Lugano, nel 1954 sono stati pubblicati con sequenza cronologica tutti gli ex-libris di Marangoni dal 1942 al 1953, esattamente 104. In definitiva l’ex-libris si propone di esprimere allegoricamente, con una breve composizione decorativa, il fine che una persona pone alla propria vita: dunque, sul piano grafico, l’ex-libris diventa una sintesi del binomio allegoria-decorazione e domanda all’artista immaginazione per trovare un’equivalenza figurativa al motto che dichiara lo scopo della vita e un singolare senso compositivo perchè l’equivalenza abbia un rilievo e una vita dinamica.

  
Torcello – Santa Fosca (1953)
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Quel binomio allegoria-composizione è proprio, a me sembra, la radice di tutta l’arte di Marangoni. Difatti il dato di natura passa attraverso i filtri della fantasia, vi lascia tutti i particolari non essenziali e tutte le dilatazioni e dispersioni spaziali, si asciuga sul suo asse sostanziale, si chiude e si trasfigura nell’esaltazione violenta dei suoi elementi più costitutivi mentre i rapporti fra bianco e nero e l’ordinarsi dei segni in configurazioni geometriche creano una annodata composizione, un ritmo incalzante.
Non occorre dire che l’allegoria di Marangoni non ha parentela alcuna con il simbolismo francese, alessandrino e decadente, dell’Ottocento.
La natura di Marangoni è troppo istintiva e scopertamente popolaresca, troppo aliena dalle decantazioni intellettualistiche e troppo pungolata dal realistico “mondo del lavoro”. Tuttavia il serrarsi del suo ritmo richiama il concetto del principe dei simbolisti, Stéphane Mallarmé… “Le vers est partout dans la langue ou il y a rytme”… che, nel caso, può essere tradotto: l’arte è dovunque dove c’è il ritmo. Occorrerà qualche anno perchè l’orientamento fantastico di Marangoni cominci a definirsi o a sistemarsi, a, direi, farsi una fisionomia che via via diventerà sempre più indipendente e prepotente fino ad essere quell’alto creativo che è oggi.
Arriveremo al 1947 ed agli ex-libris dl Pelix Augusto Bisiach e Aldo Merlo per incontrare i primi impianti caratteristici dell’allegoria e della grafia marangoniane e, nello stesso anno, nell’ex-libris dell’ingeniere Claudio Benco (“Surge et ambula”), c’è l’annuncio di un gusto che va verso la tensione surrealista.
Una tappa importante e un momento particolarmente felice viene segnato nel 1949 dall’ex-libris del dottor Tita Marzuttini (“Nec ars nec scientia ubi nulla libertas”): è un legno che, nel genere, tocca dimensioni inconsuete (mm. 68 x 138).
L’allegoria è di una semplicità e chiarezza immediate attingendo al linguaggio tradizionale: un nudo mascolino in atteggiamento statuario che sulla metà destra mostra i fasci muscolari e sulla sinistra lo scheletro. La massiccia figura è inquadrata fra una colonna dorica scannellata e un palo di ferro appuntito in alto, piegato a formare due occhi lungo l’asta e ridotto a spirale, a vite, in basso: il tragico palo di ferro degli sbarramenti filo spinati dei campi di concentramento. Il braccio sinistro della figura è avvinghiato da una catena che finisce fissata in una palla di ferro; la mano destra, libera, può scrivere su una tabella in alto, che fa da trabeazione fra la colonna e il palo, l’antica, veritiera sentenza.
La composizione ha uno svolgimento piano per l’elementarità dei suoi dati naturalistici e calmo per la distribuzione del nero e del bianco che si equilibrano e creano larghe cadenze. La linea ha ancora pochissime di quelle spezzettature e piegature ad angolo che in seguito le imprimeranno un movimento concitato e drammatico: si distende in archi che sono come ampi respiri. Anche la scalfittura del bulino arriva soltanto a momenti al tratteggio di rette. La piccola opera diventa soprattutto sorprendente per la limpidezza del suo ‘colore’: sembra avvolta in un’atmosfera distesa, tutta ugualmente immersa in una luce trasparente. E la materia legno-inchiostro tocca punte di preziosità da antica alluminatura. Uno spirito classico impregna questo legno, uno spirito che segna soltanto un momento nell’opera di Marangoni la cui costante è, invece, un’intima accensione romantica.
Nel 1953 arriveremmo agli ex-libris di Irene D. Pace, di Dirk P. Baas, di Giulio Topi.
Dalle cadenze pacate e serene si passa al ritmo serrato; l’allegoria tradizionale cede il passo ad un’immaginazione che fruga nel materiale accumulato dall’osservazione diretta sulla realtà viva; l’appiglio oggettivo è come aspirato dalla veemenza trasfigurativa; la composizione si fa più chiusa e ferrigna; il disegno diventa più fermo e acuto; il bulino ancor più s’indurisce per raccogliere una forza aspra, un’energia che proprio sembra figlia della “cocciutaggine friulana”.
Son legni bellissimi, intensamente espressivi di una vera emozione. Ho parlato finora degli ex-libris perchè per il loro carattere allegorico-compositivo meglio aderiscono, secondo me, alla struttura della fantasia di Marangoni e cioè, in un certo senso, ne facilitano lo sfogo e la concretizzazione nell’opera mentre facilitano a noi osservatori la lettura dello svolgimento della carriera dell’artista, lettura agevolata ancora dalla pubblicazione che ho ricordato. Ciò però non vuol dire che i risultati più importanti Marangoni non li abbia conseguiti nelle tavole più grandi dedicate alla figura e al paesaggio, dove più liberamente s’impegna la sua tesa narrativa: la sequenza di questi legni, come negli ex-libris, mostra il graduale, costante chiarirsi della personalità che via via esce dai contorni generici degli inizi, dal ricorso agli insegnamenti consueti, e anche provinciali, più utili alla tenace preparazione tecnica e all’allenamento delle facoltà immaginative che produttivo di un’arte che stia alla pari con le possibilità ancora in potenza dell’autore. Si può dire che la padronanza del mestiere – di un difficile puntiglioso mestiere che deve assolutamente eliminare ogni possibilità di errori che sarebbero incorreggibili – s’è fatta ma no a mano che, appunto, l’immaginazione si arricchiva e il senso dell’impaginazione si raffinava.
Nelle sue prime fasi, a questo svolgimento difetta la libertà dal lato oggettivo, veristico: anche, per esempio, nelle variazioni sul tema “i camini di Trieste”, dove è evidente lo sforzo per rivivere fantasticamente il vero, il risultato rimane nell’area di un incerto compromesso.

Tagliatori di rotaie (1952)

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Senza indugiare sull’esame di quei primi legni, che oggi conservano più che altro un’importanza storica, si può grosso modo accertare che una indicazione più decisa della personalità viene data da “Sudore” del 1951, dove l’impostazione stilistica – cioè la coerenza fra il solco inciso, il disegno fermissimo, il rapporto di bianco e di nero, la resa del movimento anatomico, l’ardito contrapporsi degli equilibri compositivi può considerarsi definitiva.
Determinazioni stilistiche più precise si hanno nel 1952, in un momento in cui l’ispirazione di Marangoni viene più direttamente dal mondo del lavoro e vi si scoprono dirette relazioni col neorealismo italiano: esempi possono essere “Stringibulloni”…, “Trasportatori di rotaie”…, “Tagliatori di rotaie”…, e i “Picchettini” mentre nello stesso anno “Casello” approda a quella concentrata e fantastica rappresentazione paesistica e “Relitto in bacino” e quel fitto arabesco decorativo che saranno poi, fino ad oggi – sempre più chiariti, sicuri e fervidi nel tessuto figurativo – i temi più ricorrenti.
Nel 1953, con “Architetture vicentine”, la visione mette piede più addentro sull’area del sogno chiudendo in un solo, fitto ritmo il gruppetto di antiche casette strette l’una all’altra, le ringhiere dei ballatoi, la foresta delle colonne, l’ombra del porticato e delle altane e delle linde, le cornici delle finestre, le luci dei vetri e le minute fughe dei tegoli.
Poco dopo, nello stesso anno, nascerà “Santa Fosca di Torcello”: legno meraviglioso sul quale il bulino ha scavato migliaia di segni per rendere il carattere di ogni mattone e di ogni tegolo e di ogni sbrecciatura dell’intonaco senza mai spegnersi nella pedanteria e senza perdere un nulla della sua freschezza. Le forme e i volumi della straordinaria architettura torcelliana sono tutti scanditi, i pieni e i vuoti, le ombre e le luci sono stabiliti con sicurezza mentre un’intensità avviluppante assume il senso del silenzio millenario, il mistero del tempo che non è perduto nel passato, ma che sta lì in una staticità immane, presenza solenne della vita ormai spoglia di ogni contingenza meccanica e ridotta al suo assoluto ed eterno, ridotta alla sua essenza umana.

 Natanti a Portofino (1954)

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Poche volte Marangoni toccherà questa completezza di linguaggio, perfetto negli equilibri di tutti i suoi fatti figurativi e tanto aderente al sentimento generato da quell’avvicendarsi nello spazio di elementi strutturali in sè tanto decorativi e, più ancora, dal sentimento di isolamento morale, di catarsi, generato da quella architettura che resta fra cielo e acqua nella solitudine del passato e del presente.

Alla XXVIII Biennale veneziana del 1956, Marangoni aveva un’intera parete coperta da grandi tavole eseguite negli ultimi due anni.
Se l’autodidatta aveva preso le mosse da ingenui contatti con un’attività grafica infiacchita in un raggio limitato e se poi l’artista formato s’era trovato provveduto di una cultura più vera fatta con la conoscenza e la critica di un’arte europea che ancora si muoveva su quel ferace terreno della modernità che è pur sempre il cubismo, oggi egli s’avventura, agguerrito dal possesso di ogni mezzo e spintovi dalla sua natura, che si è decisamente rivelata come estremamente emotiva e romantica, sul terreno della “arte fantastica”, del surrealismo.
L’inclinazione in questo senso era già apparsa da anni (ricordo, ad esempio, il “Manifesto mortuario” del 1949 e “Oblò” del 1958) e può essere che abbia ricevuto una spinta nell’estate del 1953 quando Marangoni espose alla “Bevilacqua La Masa” assieme a Tono Zancanaro e durante viaggi in Belgio e in Olanda da dove, appunto, è tornato con il “Gigante di Kinderdijk”…, la “Cattedrale malata”…, e “Case sul fiume a Gand” esposti alla detta Biennale.
Ma l’indipendenza sia dallo Zancanaro, sia da nordici come potrebbero essere, per citare i più congeniali, un Dijkstra, un Wiegers, un Oud, un Hendriks, un Mees, un Alma o un Escher o un Rueter, è troppo evidente perchè occorra parlarne.

Si può anche restare perplessi di fronte a questa strada così decisamente intrapresa perchè è assolutamente impossibile prevedere dove essa possa portare (l’artista ha dimostrato di saper camminare a lungo e molto speditamente).
Ma una cosa sembra certa, e questa è ciò che più importa: Marangoni ha fatto ciò che ha voluto di un legno e la sua coscienza di artista è rimasta schietta attraverso ogni esperienza della cultura.

Egli è rimasto sempre sincero e, da vero friulano, semplice.

Motonave “Homeric” – Ritorno di Ulisse a Itaca (1955)

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Prima di chiudere questa nota sono da citare le grandi matrici xilografiche che Marangoni per primo ha pensato come pareti decorative di ambienti di case e di navi. Suoi importanti lavori di questo genere erano appese sulle motonavi “Giulio Cesare”, “Augustus”, “Europa”, “Victoria” e “Homeric”. E va anche ricordata la sua appassionata opera di organizzatore dell’Associazione incisori veneti.
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