STORIA DELL’ARCHEOLOGIA

L’archeologia è lo studio metodico e dottrinale delle civiltà antiche attraverso lo scavo e lo studio della varia documentazione monumentale, dei prodotti artistici e delle iscrizioni. In epoca moderna il termine è stato introdotto dall’erudito francese Jacques Spon, uno dei primi archeologi (secolo XVII). Da allora l’archeologia è andata via via affermandosi e specificando il campo delle proprie ricerche, separandosi da altre discipline affini; oggi è ufficialmente considerata “scienza complementare della storia”. La storia è innanzitutto fondata sui testi, ma ricorre, per completare la propria documentazione, ad altre discipline più specifiche tra cui l’archeologia che ha il campo più vasto: perché mentre l’epigrafia si limita a studiare le iscrizioni, la numismatica, le monete, la paleografia i manoscritti, l’archeologia rivendica lo studio di tutti i monumenti, qualunque sia la loro natura e struttura, dagli edifici grandiosi come le piramidi egizie e le terme romane, al più minuscolo frammento d’un vaso di terracotta. Momento base del lavoro dell’archeo1ogia è lo scavo, perché riporta alla luce i resti di ciò che fu nel passato. Spesso purtroppo avviene proprio il contrario: nel 1709 per esempio il principe di Elboef effettuò a Ercolano degli scavi che, senza esagerazione, possono essere considerati un vero e proprio crimine archeologico. Gli operai in quell’occasione crearono profondi cunicoli sotto la massiccia coltre di lava spessa 20 metri, formata dall’eruzione vulcanica del Vesuvio, rubando i preziosi cimeli, prima di coprire gli scavi. Alle città sepolte dall’eruzione del 79 d.C. gli archeologi dilettanti dello stampo di Elboef e di Carlo III di Borbone provocarono più danni della massa di lava che le aveva ricoperte e preservate dalla distruzione per poco meno di due millenni. Poco scientifico è anche il modo di procedere di Lord Elgin, ambasciatore britannico in Turchia. Egli depredò dei marmi fidiaci il Partenone, imbarcando per l’Inghilterra gran parte del fregio panatenaico, alcune sculture, e perfino una kore dell’Eretteo.
L’età dell’oro dell’archeologia, quella cioè delle grandi scoperte, è strettamente legata al nome del tedesco Heinrich Schliemann. Visti alla luce della scienza contemporanea, i metodi di Schliemann vanno senz’altro criticati come dilettantistici, però nessuno quanto lui ha mai reso tanto popolare l’archeologia, nonostante la già avvenuta scoperta di Pompei e di Ercolano e gli scavi effettuati in Mesopotamia dal francese Botta (a Khorsabad) e dal1’inglese Layard (a Nimrud). Dopo una giovinezza avventurosa (lavorò come commesso in un negozio di spezie, fattorino ad Amsterdam e mozzo di mare), fondò in America una banca per il commercio dell’oro, e poté allora finalmente dedicarsi al sogno della sua gioventù: quello di trovare Troia e confermare così la veridicità del racconto omerico. Messosi in viaggio, riuscì a determinare l’esatta posizione della città mitologica sul colle che aveva il nome turco di Hissarlik. Vi scoprì mura e resti di case di più città, sovrapposte una all’altra: distrutte, erano state poi ricostruite sulle rovine della città precedente. Durante gli scavi nel 1873 Schliemann trovò un tesoro aureo, che nel suo ingenuo entusiasmo si affrettò a battezzare come “tesoro di Priamo”: era formato complessivamente da ben 8.700 minuscoli oggetti, quali collane, braccialetti, spille, anelli e fermagli. Tre anni dopo, l’infaticabile archeologo prese a scavare anche nel territorio di Micene: lì portò alla luce cinque tombe a fossa con ricche suppellettili in oro, tombe che si affrettò romanticamente a chiamare “di Agamennone, di Cassandra, di Eurimedonte e dei loro compagni”. Gli scavi di Schliemann a Troia furono più tardi proseguiti da Dörpfeld, e più tardi ancora, con metodi perfezionati, dall’americano Carl W. Blegen, il quale identificò con precisione la Troia di Omero con la città corrispondente allo strato VII A. Anche a Micene il lavoro pionieristico di Schliemann venne continuato da altri; si giunse così alla scoperta di nuove tombe non meno ricche, a opera di Papadimitriou e poi (1926) di Dorothy Burr.
Agli scavi egiziani dette l’avvio Napoleone in persona, con la sua famosa campagna d’Egitto (1798). Il generale Desaix regolava i tempi della spedizione affrettandosi oppure bloccando le truppe, a seconda delle esigenze degli archeologi al seguito.

Figura interessante di questa campagna fu Dominique Vivant Denon; si deve a questa donna la “Description de l’Egypte” pubblicata tra il 1809 e il 1813, mentre il decifratore dei geroglifici Jean François Champollion diede la chiave dell’alfabeto fonetico egiziano in una celebre lettera a M. Dacier (1822), dopo aver studiato la stele di Rosetta e quella di File. Il terzo francese che ebbe molta importanza per l’archeologia egiziana fu Auguste Mariette, che fondò il Museo Egizio del Cairo e scoprì a Saqqarah le tombe del toro Apis e il sepolcro di Ty.

Dei numerosissimi ritrovamenti che dall’epoca pionieristica ai giorni nostri hanno costellato la storia dell’archeologia, io mi limito qui a citare, anche a illustrare brevemente, solo quelli che hanno avuto ai loro giorni maggiore risonanza presso l’opinione pubblica mondiale. Una delle più brillanti imprese archeologiche fu quella compiuta nel 1922 da Lord Carnavon e dal direttore degli scavi, Howard Carter: venne allora alla luce, nella Valle dei Re presso Tebe, la tomba di Tutankhamon, sovrano della XVIII dinastia. I due inglesi inizialmente disperavano del successo e si apprestavano a lasciare l’impresa, quando decisero, come ultimo tentativo, di eliminare alcune baracche d’operai che nella valle avevano lavorato alla tomba di un altro faraone, Ramses VI. Abbattuta la prima capanna, vennero alla luce i gradini di una scala ingombra di pietrame che finiva a ridosso di una porta murata coi sigilli della necropoli tebana e con quelli di Tutankhamon. I segni di due aperture, poi richiuse, testimoniavano che la sepoltura era stata visitata dopo l’inumazione; il sepolcro però non poteva essere stato toccato dopo l’epoca di Ramses VI, poiché la sua entrata era mascherata dalle baracche degli operai che avevano lavorato alla sua tomba. Dietro la porta s’apriva un corridoio, anch’esso intasato da pietrame e terra. Liberato il passaggio, apparve una seconda porta, murata e sigillata, con tracce, anch’essa, di effrazione. Quando gli archeologi praticarono uno spiraglio nel muro, alla luce delle torce elettriche apparve ai loro occhi sbalorditi un favoloso tesoro. Tra i tanti oggetti non si trovava alcun sarcofago, poiché non si trattava che di una anticamera: il vero sepolcro doveva trovarsi al di là. Tra due statue nere, poste ai lati come sentinelle, si trovava un’altra porta sigillata, che venne aperta solo nel febbraio dell’anno seguente e rivelò l’effettiva camera sepolcrale dei re, quasi per intero occupata da una gigantesca teca in legno dorato, costruita per coprire e proteggere il sarcofago. Apparve all’interno un secondo reliquario, con porte sprangate e un sigillo intatto sui chiavistelli. I ladri, che poco tempo dopo l’inumazione erano penetrati nella tomba, avevano risparmiato dunque il Sarcofago: non tanto per rispetto o timore di forze soprannaturali, quanto perché dovevano fare in fretta, se non volevano essere sorpresi dalle guardie in ronda continua nella Valle dei Re.
Ma a quanto pare altri profanatori tentarono, ma non portarono a termine, il sacrilego furto: lo provano le casse accatastate alla rinfusa, con oggetti buttati dentro a caso dai funzionari della necropoli, non troppo preoccupati di rifare ordine dopo la visita dei ladri. La clamorosa scoperta d’una tomba faraonica intatta o quasi ha di gran lunga accresciuto le nostre conoscenze dell’antica civiltà egizia; e in ciò siamo stati inconsapevolmente aiutati dagli operai della XII dinastia: se essi non avessero costruito i loro alloggi proprio sopra la tomba di Tutankhamon, anche questa tomba sarebbe stata ritrovata totalmente spoglia come tutte quelle dei re che qui ebbero la loro sepoltura da quando Enene, “direttore degli edifici statali”, ebbe l’idea di seppellire il suo signore nella valle che sarebbe stata poi detta “dei Re”.
Quasi nello stesso tempo in cui nella valle del Nilo veniva alla luce la tomba faraonica di Tutankhamon, nella valle di un altro fiume culla di civiltà, l’Eufrate, venivano scoperti i sepolcri dei re sumeri.
Direttore degli scavi fu l’archeologo inglese Woolley, che nella necropoli reale di Ur lavorò per circa un decennio. I metodi di scavo tecnicamente perfezionati permisero di esplorare le tombe con una precisione che non trova riscontro in tutta la precedente storia dell’archeologia; ma la ragione principale per cui le tombe divennero famose in tutto il mondo fu il ritrovamento, nei corridoi di accesso, di tutta la corte che seguiva il suo signore nell’aldilà. In queste rampe si trovarono fino a diciotto cadaveri per tomba.
In solenne processione essi avevano accompagnato nella morte il loro signore, per migrare al di là, nell’altro mondo, dopo essere stati storditi da una bevanda velenosa.
Il corpo della regina Shudad era completamente schiacciato sotto il peso dell’oro, dell’argento e delle pietre preziose.
L’adiacente tomba del re, invece, fu trovata vuota: nella volta della camera sepolcrale era stato aperto un buco, e di lì i ladri avevano involato il tesoro. Lo scopritore Woolley avanzò l’ipotesi che la tomba del re fosse stata depredata di nascosto dagli stessi operai che anni dopo avevano costruito quella della regina. Oltre alle sedici tombe reali del terzo millennio avanti Cristo nella grande metropoli di Ur vennero scoperte più di 2.000 sepolture comuni. Innumerevoli i reperti archeologici: armi, sigilli, vasi, gioielli, barche in metallo, scheletri di arpe. Sempre a Ur vennero portati alla luce, per opera dello stesso Woolley, i grandiosi resti di una possente torre a tempio, che gli antichi Sumeri avevano innalzato in onore del dio lunare Nannar. I Sumeri erano immigrati nella pianeggiante Mesopotamia da un paese montuoso, ancora sconosciuto: e poiché qui mancavano le montagne sulle quali essi erano soliti venerare i loro dei, ne costruirono di artificiali, le cosiddette ziggurat; di esse quella di Ur fu la principale e servi poi da modello per la grandiosa torre babilonese. Sulle terrazze delle ziggurat si trovavano probabilmente piante e cespugli (i celeberrimi giardini pensili); quanto allo spessore delle mura, basti pensare che quello della ziggurat di Ur toccava i dodici metri.
Dopo che gli Assiri, nemici dei Babilonesi, ebbero distrutto la torre di Babele, Nabucodonosor la ricostruì più imponente che mai; ai suoi piedi la sorella di Belazar edificò un museo archeologico, il primo della storia, con opere d’arte che già avevano sino a 1.700 anni d’età. La distruzione definitiva della torre di Babele fu dovuta alle truppe macedoni di Alessandro Magno, peraltro intenzionato a sostituirla con una costruzione ancora più fastosa; il grande re trovò qui invece la morte, rapida e improvvisa.
Sempre all’opera conquistatrice di Alessandro il Grande è dovuta la distruzione del palazzo imperiale di Persepoli, cominciato sotto Ciro e ampliato poi da Dario, Serse, Artaserse. La grandiosa porta d’ingresso era fiancheggiata da tori antropomorfi, e accanto si trovava l’apadana, cioè la sala del trono, alta 20 metri e sostenuta da 72 colonne. L’adiacente sala dalle cento colonne, accessibile a cavallo mediante rampe, era di 75 metri per 75 e alta 10; negli sguanci delle porte è rappresentata, tuttora ben conservata, una cerimonia di omaggio al re, che si trova sotto un baldacchino.

Tra i monumenti colossali dell’antico Egitto, riportati alla luce o comunque studiati in epoca recente, la piramide della necropoli di Saqqara, innalzata per il faraone Zoser della III dinastia (2650 circa a.C.) dal geniale architetto Imhotep, che secoli dopo verrà adorato come un dio.
La piramide a gradini di Saqqara, racchiusa nel grande recinto dei templi del faraone Zoser – recinto munito di 14 porte, 13 delle quali però soltanto disegnate, e una sola reale, intagliata in un singolare portico a forma di T -, era stata dapprima progettata in forma quadrata: un pozzo conduceva a una camera mortuaria in granito. Per gli appartenenti alla famiglia reale vennero nello stesso tempo scavate undici fosse. In seguito, la costruzione originaria venne notevolmente ampliata, fino a toccare i 40 metri in lunghezza, i 118 in larghezza, i 60 in altezza; i gradini
furono dapprima quattro, poi vennero portati a sette. Per quanto riguarda l’importanza archeologica dell’intera costruzione, basti pensare che nel labirinto di gallerie che si trova sotto la piramide a gradini di Saqqara vennero rinvenuti più di 30.000 vasi d’ogni foggia e misura.

Tra le cose antiche che fanno maggior impressione al turista in visita in Egitto, è da annoverare la piramide tronca di Meidum (IV dinastia) con una base di 144 metri per 144, un’altezza originaria di 92 metri (il troncone oggi è di 62 metri) e un’inclinazione di 51 gradi circa. Un corridoio di 57 metri conduce sotto il suolo roccioso, dal quale si innalza verso l’alto della camera sepolcrale un pozzo con un tetto a sette scaglioni. Notevole l’importanza di questa piramide: poiché gli strati esterni di pietra sono stati in parte asportati e sono in parte franati, si trova a nudo il nucleo interno, ed è così possibile trarre conclusioni sulla tecnica costruttiva di una piramide. A occidente di Tebe, la capitale del Nuovo Regno, si trovano i resti del tempio funebre della regina Hatschepsut (XVIII dinastia, XVI sec. a.C.), distrutto poco tempo dopo dal fratellastro Thutmosis III. Questo splendido tempio era articolato in diverse terrazze, una sopra l’altra, e terminava con una gigantesca quinta rocciosa. Alla corte interna, ornata di colonne, erano annesse le celle degli dei; le cappelle principali erano quelle dedicate ad Anubi, raffigurato con la testa di sciacallo, e ad Hator, sotto forma di giovenca. Sull’asse mediano del tempio è il Santissimo, profondamente incassato nella roccia.
Più che delle sin troppo note piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, vorrei qui parlare dei templi rupestri di Abu Simbel, uno in onore del faraone Ramses Il e l’altro della moglie Nefertiti. Negli anni Sessanta la zona centrale della Nubia stava per essere sommersa per sempre a seguito della costruzione di una gigantesca diga sul Nilo. Si decise allora il salvataggio dei templi: a tale scopo agirono in modo solidale ben 48 nazioni, sotto la guida dell’Unesco, e la loro azione ha rappresentato la più grossa impresa tecnico-archeologica di tutti i tempi. I primi progetti prevedevano di staccare dal blocco di roccia, in un solo pezzo, il tempio più grande, pesante 265.000 tonnellate, e il piccolo di 55.000 e di sollevarli con mezzi idraulici. Ma il progetto originario fu accantonato per le insormontabili difficoltà di ordine finanziario.
Si ripiegò allora su di un progetto non meno temerario: i due templi vennero segati in blocchi del peso di 20-30 tonnellate (in gran parte questo lavoro fu eseguito a mano da marmisti italiani, per evitare che l’intervallo tra pietra e pietra fosse superiore ai 6 millimetri), e i singoli pezzi, assicurati con catene d’acciaio su traverse, furono sollevati da gru, e rigorosamente rimontati più in alto. Si poté così strappare al dominio delle acque una delle opere più grandiose mai realizzate dall’uomo. Sulla facciata del tempio principale di Abu Simbel siedono tuttora, con lo sguardo rivolto all’Est, tre massicci colossi di Ramses, nell’interno, otto pilastri con Ramses-Osiride sorreggono il tetto, mentre nel Santissimo il divinizzato Ramses siede accanto al dio creatore Ptah, ad Amon e a Ra.

Una delle regioni più fertili per gli studi storici e archeologici è senz’altro l’isola di Creta, in felice posizione geografica tra Europa, Asia ed Africa; basti pensare che gli scavi più recenti hanno dimostrato che a Festo c’erano quattro palazzi uno sopra l’altro, il più antico dei quali risale al XXI sec. a.C. Gli scavi cretesi più noti sono quelli effettuati a Cnosso dal1`inglese Sir Arthur Evans, all’inizio del secolo. Fu Sir Evans a scavare il palazzo minoico in sole dieci settimane e con una squadra di 150 uomini operando ricostruzioni troppo spinte, fantasiose, non di rado del tutto arbitrarie. Fu lui comunque a portare alla luce le poderose strutture del palazzo e numerosi frammenti di interessantissimi affreschi; su di una parete era tra l’altro raffigurata, in tre tempi, una pericolosa corrida, con una fanciulla che afferra il toro per le coma, esegue sopra di esso un salto mortale, e viene raccolta da un’arnica.
Attraverso questi resti di affreschi si delinea l’immagine di una civiltà estremamente raffinata. Non per niente il ritratto più famoso di queste dame di corte è noto universalmente come “la parigina”. E anche là dove compaiono le armi, non manca un tocco di raffinatezza; in una tomba presso Cnosso venne scoperta nel 1957 una punta di lancia decorata a farfalla.

Tra i numerosi scavi archeologici effettuati sul suolo italico non vogliamo qui dimenticare quelli condotti nel 1913-16 nel territorio dell’etrusca Veio: Giglioli trovò, ai piedi di un tempio, coricata in una fossa la statua del dio Apollo; apparve subito chiaro che la statua del dio protettore della città era stata piamente interrata, dopo la caduta di Veio ad opera dei Romani. Ancora oggi, attraverso i secoli, l’Apollo “che cammina” di Veio affascina lo spettatore.
Nello stesso luogo venne riportata alla luce nel 1939 la statua di una donna con un bambino. Più che attraverso le statue di Veio comunque la civiltà etrusca ci è nota grazie alle tombe di Tarquinia e Cerveteri (sistematicamente esplorate a partire dalle pareti spesso ornate con scene vivaci di caccia, banchetti, feste). Tombe numerosissime, in gran parte ancora inesplorate; troppe di esse purtroppo sono state però abusivamente violate dai cosiddetti tombaroli alla ricerca di oggetti da immettere nel mercato nero dell’antiquariato. Per conoscere prima ancora dello scavo vero e proprio il contenuto eventuale di una tomba, sono state messe a punto tecniche ingegnose, quali la sonda fotografica e il periscopio di Nistri. Basta praticare un foro nel soffitto della tomba e introdurvi un periscopio o una sonda munita di macchina fotografica: facendola girare su se stessa di 30 gradi, in dodici scatti è possibile ottenere l’immagine dell’intero perimetro della tomba. Tra le tombe più famose portate alla luce noi ci limitiamo a segnalare quella “del letto funebre” di Tarquinia, con l’affresco di un giovane che abbraccia teneramente la nuca del cavallo prediletto; la “Tomba dei cavalli”, con una festa rituale di significato oscuro; la tomba detta “dei bassorilievi” di Cerveteri che sui pilastri e sulle pareti intorno ai letti dei defunti porta raffigurati in stucco gli utensili della vita quotidiana e le armi che dovevano servire ai morti nell’oltretomba.

Si ricordano anche le scoperte archeologiche relative alla civiltà romana. Nel l930 vennero portati alla luce affreschi divenuti in breve famosi: su uno sfondo di intenso colore “rosso pompeiano” il cielo della Villa dei Misteri mostra l’iniziazione dionisiaca di una fanciulla. Nel 1938 l’amministrazione pontificia fece intraprendere a Roma dei lavori nel sottosuolo del palazzo della Cancelleria apostolica, situata al margine nord dell’antico Campo di Marte: quando si scese a 8 metri di profondità, venne dapprima trovata la tomba di Aulo Irzio, uno dei principali collaboratori di Giulio Cesare, redattore dell’ottavo libro dei Commentari sulla guerra di Gallia, e poi due grandi decorazioni in bassorilievo, d’epoca flaviana: testimonianze insigni della tipica scultura di propaganda imperiale; in uno era rappresentato Vespasiano accolto trionfalmente al suo arrivo in Italia, e nell’altro il figlio Domiziano, che Marte e Minerva sospingono verso un’alata Vittoria.
Roma continua ad essere centro di studi e ricerche: si segnalano in particolare gli scavi nel Foro, coni quali si cerca di individuare il primo nucleo abitato alle pendici del Palatino, risalente all’VIII sec. a.C.

Bisogna tenere conto che, in primo luogo, portare alla luce tratti di muro od oggetti già protetti da metri di terra significa esporli a un deterioramento progressivo per cui l’archeologo deve fare opera di conservazione, di mantenimento e talora – per salvare come per presentare i suoi ritrovamenti- di restauro. In secondo luogo vanno considerati i dati che sono per così dire incorporati al suolo stesso; la vicenda che vi si è svolta durante i secoli è presente nei più piccoli particolari; così lo strato, o meglio il complesso o il contesto nel quale è stato trovato un coccio di vaso o una statua mutila, la stessa mutilazione della statua, il ripostiglio di un tesoro di monete sono altrettanti elementi che permettono di individuare le tappe di una vita millenaria. Ovviamente in uno scavo non è tutto chiaro, né leggibile, per cui è necessario che chi opera direttamente lo scavo non sia il solo a conoscere i reperti, né, di conseguenza, a interpretarli. Suo dovere è quello di fare in modo che si possa conservare nei resoconti di scavo la traccia di tutto ciò che si fa sparire sul terreno. Nella tecnica archeologica, quattro sono le fasi che vanno principalmente considerate: l’organizzazione della campagna di ricerca, lo scavo e la registrazione di tutti i dati forniti dalle varie situazioni del terreno, la conservazione delle rovine e degli oggetti portati alla luce, lo studio del materiale con particolare riguardo alla datazione e nel caso di opere d’arte, all’interpretazione e classificazione. Con l’aerofotografia, verticale od obliqua, è possibile cogliere, di una vasta superficie, la diversa colorazione del terreno e la varia disposizione e sviluppo della vegetazione: elementi che possono testimoniare la presenza o meno di ruderi o sostanze particolari nel sottosuolo. Ugualmente la fotografia aerea può indicare, attraverso il gioco delle ombre delle cavità e dei fossati, reticolati urbani sepolti, mura, lastricati. Accanto ai metodi geofisici, basati sullo studio della resistività elettrica e delle variazioni dei campi elettromagnetici dei terreni, anche l’analisi chimica di questi può servire a una campagna di ricognizione archeologica: la presenza di elementi organici e la percentuale di biossido di carbonio nei campioni prelevati da varie zone possono essere di valido aiuto per l’individuazione di insediamenti umani. Un altro metodo di indagine assai sfruttato, specialmente nella ricerca delle tombe etrusche è quello ideato e applicato dalla Fondazione Lerici del Politecnico di Milano. Dopo aver individuato la tomba con strumenti elettromagnetici o con fotografie aeree, viene introdotta in essa una speciale sonda munita di apparecchio fotografico che permette di vedere, prima dello scavo, tutto ciò che nella tomba è conservato, e di procedere quindi al lungo lavoro di sterro solamente se i risultati saranno proporzionati alle fatiche e alle spese da sostenere. Naturalmente, anche questo metodo, come gli altri sopra ricordati, ha limiti d’impiego ben precisi, e non tutti i vari sistemi possono venire applicati indiscriminatamente.

.


VEDI ANCHE . . .

STORIA DELL’ARCHEOLOGIA

LE GRANDI SCOPERTE ARCHEOLOGICHE

LA SCOPERTA DI TROIA – Heinrich Schliemann

SCHLIEMANN ALLA SCOPERTA DI TROIA

ANTICA GRECIA – Architettura dell’età arcaica

CRETA E MICENE – L’ARTE MINOICA

CRETA E MICENE – LA CIVILTÀ MICENEA

NECROPOLI TEBANA

I TEMPLI DI ABU SIMBEL

L’ORO DI TUTANKHAMON

LOCALITÀ ETRUSCHE

LO SPECCHIO ETRUSCO

L’ARRINGATORE ETRUSCO

LA CHIMERA DI AREZZO

IL FRONTONE DI TALAMONE

POMPEI, ALL’OMBRA DEL VESUVIO

L’AMORE SUI MONUMENTI DI AQUILEIA

IL TEMPLO MAYOR

MACHU PICCHU

TIKAL, antica città Maja

CHICHÉN ITZÁ – LA CITTÀ DEI MAYA

ESERCITO DI TERRACOTTA

.