CATEGORIA DELLA STORIA DEL PENSIERO

La parola greca categoria entrò nel vocabolario filosofico, con Aristotele, circa 2300 anni fa. Prima essa era appartenuta esclusivamente al linguaggio comune, al discorso quotidiano e immediato: sulla bocca degli abitanti della “polis”, valeva, nel suo significato più specifico ed originario, a indicare il biasimo, l’accusa, l’imputazione.
È con Aristotele, dicevo, che comincia il laborioso destino filosofico del termine, assunto ora in un gergo illustre da “iniziati” e consegnato in modo definitivo alla storia della logica. Secondo lo Stagirita, il categoréin è la funzione che consiste nel dare un predicato a un soggetto (giudizio), nell’attribuire una qualifica, una definizione di carattere generale ad un ente particolare; e categorie sono appunto i predicati o, più esattamente, le classi più alte includenti ogni predicato da collegare di volta in volta con i singoli enti (questo, quello, ecc.). Secondo gli elenchi più completi, tramandati attraverso i secoli dai logici dell’antichità a quelli del Medioevo (1), le categorie aristoteliche sono dieci: la sostanza, la quantità, la qualità, la relazione, il dove, il quando, il giacere, l’avere, il fare, il subire.

DA ARISTOTELE A KANT

Ma una dottrina delle categorie che assuma un pieno rilievo filosofico – sottraendosi ai limiti della logica formale e investendo in pieno il problema del conoscere – la troviamo, legata al nome di Immanuel Kant, solo in una fase di avanzato sviluppo del pensiero moderno.
Mentre per Aristotele le categorie costituivano una rete di concetti o “universali” considerati in modo statico e indipendentemente dall’atto concreto del giudizio, per Kant la categoria è una funzione mentale (quindi non statica ma in atto) di unificazione se non addirittura di costituzione dell’esperienza.
Più precisamente: per il filosofo di Königsberg, le categorie sono quei concetti intellettivi puri a priori (a priori perché non ricavabili dall’esperienza sensibile, dato il loro carattere di universalità e di necessità) che accolgono e ordinano in una solida trama, fondamento della conoscenza scientifica, i dati del senso già inquadrati nella cornice dello spazio e del tempo. È grazie alla presenza attiva della categoria della causalità, ad esempio che due gruppi di percezioni vengono posti in quella determinata connessione fra di loro per cui noi diciamo che il fenomeno A è causa del fenomeno B. Ne consegue che le categorie, forme trascendentali della coscienza, non della mia o della tua, ma della coscienza in generale, dettano legge, impongono una struttura al mondo fenomenico, alla natura, cioè, che ci circonda.
La categoria della causalità cui ho accennato, non è però che una delle dodici che Kant allinea nella sua famosa e molto criticata tabella. Poiché secondo una classificazione tradizionale, i giudizi venivano ripartiti e raccolti in quattro gruppi, (giudizi di quantità, di qualità, di relazione e di modalità) ciascuno dei quali comprendente sotto di sé tre momenti, egli credette di poterne individuare e ricavare dodici categorie.

LE CRITICHE DEI POST-KANTIANI

La soluzione kantiana non appagò i pensatori immediatamente successivi. Il rimprovero che essi movevano a Kant era, fra gli altri, quello di non aver compiuto una effettiva deduzione delle categorie e di aver composto la sua tabella in un modo piuttosto empirico e arbitrario. Se le categorie – si diceva – conferiscono alle nostre affermazioni carattere di necessità, bisogna anche che esse siano poste necessariamente, cioè non in modo estrinseco e quasi casuale; non solo, ma se esse unificano la disordinata molteplicità dell’esperienza immediata, bisogna che esse siano a loro volta unificabili, cioè sicuramente riconducibili a un principio primo e da esso quindi “deducibili”.
Ecco così delinearsi il problema di una deduzione organica delle categorie come uno dei problemi e una delle preoccupazioni principali del pensiero idealistico postkantiano. La “Logica” di Hegel, per fare un solo esempio, può essere considerata anche sotto l’aspetto di un tentativo, geniale seppure in gran parte artificioso, di deduzione dialettica delle categorie; L’essere, il non-essere, il divenire, la qualità, la quantità, la misura, e via discorrendo, sono le tappe concettuali (le categorie) presso le quali l’Idea si sofferma, per cosi dire, un istante, per poi oltrepassarle e raggiungerne altre ancora, sospinta nella sua mobile vicenda dialettica.
Qual è o quali sono le posizioni assunte del pensiero contemporaneo di fronte al tradizionale problema delle categorie? La risposta ad un quesito del genere si presenta tutt’altro che facile, tanto più che l’addentrarsi in questioni strettamente “tecniche” sarebbe in questa sede del tutto fuori luogo. Posso di indicare le linee generali di un orientamento che peraltro è ancora allo stato assai fluido.
Il pensiero contemporaneo, nelle sue correnti più avanzate, cioè quelle che han rotto con l’impostazione spiritualistica e idealistica, apprezza naturalmente come grandi conquiste della speculazione filosofica sia la teoria kantiana delle categorie, sia le teorie formulate dai pensatori del periodo successivo; ma ritiene che i termini stessi della questione debbano essere radicalmente rinnovati.

NUOVI PUNTI DI VISTA

Oggi, per esempio, il problema di una deduzione delle categorie, e più in generale delle forme mentali e spirituali da un cosiddetto principio primo, non solo non è più al centro dell’interesse del pensiero filosofico, ma la sua legittimità stessa viene contestata, poiché è evidente che tale problema si fonda sulla premessa di una metafisica idealistica che, nei suoi vari indirizzi, pone appunto, come principio primo, 1′Io o l’Idea o lo Spirito.
Anche la questione dell’apriorità delle categorie non sembra più accettabile, per lo meno nei termini kantiani. Se, sulla scorta della vecchia impostazione empiristica, si concepisce il materiale percettivo come una serie disorganica e disgregata di tanti singoli dati elementari, allora può essere in parte (solo in parte) giustificato i1 postulare un’attività sintetica, unificatrice dell’intelligenza che sia logicamente preesistente, cioè a priori. Ma poiché quella veduta empiristica è molto discutibile, tanto più discutibile risulta il razionalismo apriorista che ne è la contropartita.
E infine: anche il carattere di assolutezza delle categorie di cui era convintissimo Kant (e che venne ribadito persino da un filosofo “storicista” come Benedetto Croce), non manca di suscitare gravi perplessità. Davvero le categorie sono dei canoni eterni e immutabili di origine extra-storica? Molte sono le obiezioni che oggi si muovono a questa concezione. Senza contare che non può più passare inosservato il modo generico e relativamente ingenuo con cui filosofi anche grandissimi del passato assumevano termini e concetti a base dei loro sistemi. (Ad esempio: la già ricordata categoria della causalità, ad una analisi attenta, non si rivela affatto semplice e univoca – e quindi assoluta – come potrebbe sembrare a prima vista, poiché essa raccoglie tanti significati molto diversi tra di loro, e tutti da analizzare attentamente, del concetto di causa).
Questo atteggiamento radicalmente critico del migliore pensiero contemporaneo, questa tendenza a togliere di sotto alla “categoria”, ogni impalcature gnoseologico-metafisica, si riflette anche nell’uso che abbastanza correntemente viene fatto oggi del termine. Uso molto sciolto, (forse anche troppo), non esplicitamente ancorato ad una concezione filosofica specifica, per cui si parla liberamente di categorie dell’estetica (ad es.: forma e contenuto) come di categorie dell’economia politica, come di categorie della vita morale, e in genere di categorie in tutte le regioni del vasto e complesso mondo culturale.
Ora, anche se spesso manca in questi casi una chiara consapevolezza del significato con cui il termine figura nel discorso, non è però difficile rintracciare il punto di vista che vi sottende. Le categorie, secondo tale punto di vista, sono i concetti-guida e al tempo stesso le idee-limite che organizzano un determinato campo di ricerche, che rappresentano i principi teorici fondamentali, le leggi, possiamo dire, di un dato piano del sapere.
Sono concetti-guida perché orientano nel corso dell’indagine e offrono la possibilità di una efficiente sistemazione e razionalizzazione dei singoli momenti d’esperienza; sono infine idee-limite perché la loro stessa natura ideale, la loro funzione metodologica impedisce che si possano mai tradurre in qualcosa di reale immediatamente esistente,
Prendiamo ad esempio le categorie fondamentali della storiografia: i concetti di individualità e di socialità. È evidente che né il primo né il secondo possono di principio presentarsi come qualcosa di effettivo e di compiuto. Essi “esistono” solo al limite, idealmente, integrandosi a vicenda: il dato di fatto concreto, infatti, è sempre una realtà individuale collocata in un ambito sociale.

(1) Fu nel Medioevo, appunto, che scoppiò la celeberrima disputa sugli universali che ebbe origine dalla traduzione boeziana della “Introduzione alle categorie” di Porfirio. I termini della discussione erano i seguenti: gli universali, cioè, nel caso specifico, i cinque “predicabili” che Aristotele affianco alle categorie, hanno una sussistenza in sé, indipendente dal pensiero e antecedente le cose, o esistono come concetti o finzioni concettuali solo nella mente?

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