STORIA DEL TEATRO

Teatro è parola greca, théatron, da theasthai che significava “guardare”; il termine, presso i Greci, era usato per indicare i1 luogo destinato agli spettacoli pubblici. Si trattò, da principio, del fianco concavo di una collina su cui venivano ricavati gradini erbosi, poi di pietra o di marmo (la cavea per gli spettatori) con uno spiazzo in basso, rotondo o semicircolare, l’orchestra, dove sorgeva l’altare di Dioniso e dove agiva il Coro; dietro l’orchestra era un palco (la scena) che limitava l’anfiteatro di fronte alla cavea e dove agivano gli attori.
A Roma la cavea venne costruita interamente di pietra sul supporto di arcate e la scena venne spesso abbellita con colonne e statue. Gli attori portavano alti calzari, i coturni, e sul volto delle maschere, atteggiate al pianto o al riso secondo che lo spettacolo fosse tragico o comico. I latini chiamavano queste maschere “personae”, (personare = risuonare più  forte) da cui “personaggio”, perché fungevano da megafoni. Coturni e maschere aiutavano gli attori a farsi meglio vedere e udire dal pubblico, che poteva essere molto numeroso, contenendo i teatri antichi da tremila a cinquemila spettatori e talvolta anche di più.
Non c’era città nel mondo antico che non avesse il suo teatro. Gli spettacoli vi erano rappresentati normalmente di giorno e, durante le grandi feste, vi si susseguivano dal mattino alla sera con brevi intervalli tra l’uno e l’altro.

Il teatro era dunque un luogo pubblico cui si accedeva senza pagare. Le spese dell’allestimento e degli attori erano sostenute dallo Stato, che indiceva gare apposite tra i poeti, mentre la scelta delle opere da rappresentare era privilegio delle più alte magistrature. Il che decretava decisamente il carattere civile e politico di questa attività, con diretti legami con la vita pubblica cittadina.

In età classica, nel teatro greco e romano, si rappresentavano tragedie, commedie e drammi satireschi; tre generi letterari chiaramente distinti, cui si aggiunse, più tardivamente, il mimo. Fu da questi generi, che dopo una pausa durata oltre un millennio, derivò alle soglie dell’età moderna il nostro teatro.

La tragedia classica

La tragedia è una delle più alte creazioni del genio greco, indissolubilmente legata, nelle sue forme più pure, al mondo dell’Ellade; la tragedia moderna, pur derivando da quella greca, ne diverge profondamente, anche formalmente.

La tragedia greca, prima di essere spettacolo, fu cerimonia religiosa: un coro cantava inni in onore di Dioniso, il dio del vino (Bacco per i Romani). Un leggendario poeta, Tespi, avrebbe introdotto l’uso del dialogo tra uno degli elementi del Coro (l’attore protagonista) e il capo dei coristi (o coreuti), il corifeo. Argomento del Coro era sempre un mito, vale a dire la celebrazione di un eroe leggendario e la sua tragica fine: questi due elementi (vicenda commovente e sfondo mitologico) distinguono così la tragedia greca e le danno un’impronta inconfondibile.

Tespi avrebbe anche introdotto l’uso della gara pubblica tra i poeti trasformando definitivamente questi inni dionisiaci in veri e propri spettacoli. Da lui sarebbe venuta l’abitudine di rappresentare, nell’arco della stessa giornata, tre tragedie, spesso di sviluppo dello stesso argomento (trilogia), concluse da un dramma satiresco (una specie di farsa).

La struttura definitiva della tragedia si deve però a un personaggio storico, il primo dei grandi tragici, Eschilo, Vissuto tra il 525 e il 455 a.C., di cui ci sono pervenute sette tragedie. Egli introdusse un secondo attore, arricchendo in questo modo l’azione, che tuttavia manteneva nel Coro il suo elemento fondamentale. Sofocle, l’altro grande tragico (497-406 a.C.), introdusse un terzo attore. Delle 130 tragedie che egli scrisse, ce ne sono pervenute sette. Euripide, infine, l’ultimo dei grandi poeti tragici ateniesi (485-406 a.C.), ridusse l’importanza del Coro a puro intermezzo tra un momento e l’altro dell’azione, dando grande rilievo ai protagonisti. Di lui sono rimaste 17 tragedie. .

La struttura della tragedia classica

Eschilo dette alla tragedia una struttura che sostanzialmente rimase poi inalterata: i suoi momenti fondamentali sono il prologo (un monologo che introduce l’argomento e ne illustra i precedenti); la parodos, o ingresso del Coro; gli episodi (due o tre), di recitativo che sviluppa l’azione, intervallato da brani cantati dal Coro (gli stasimi) fino alla catastrofe; infine lesodo, che significa “uscita” (l’uscita del Coro) e pone termine alla tragedia. È abbastanza evidente che questa struttura sta alla base degli “atti” delle opere teatrali moderne.

Altra caratteristica del teatro greco che lo distingue da quello moderno e che la catastrofe, cioé il momento culminante dell’azione, non avveniva normalmente sulla scena; la si immaginava fuori scena; un attore apposito ne narrava al pubblico, con accenti commossi, le diverse fasi, ripugnando al pubblico gli spettacoli di sangue. La solenne, composta religiosità della tragedia non doveva essere turbata da scene scomposte o violente.

La tragedia a Roma

I Romani ebbero anch’essi una loro tragedia, mutuata da quella greca, con temi rivolti al mito o alle leggende eroiche dei primi tempi della repubblica. La loro produzione è andata interamente perduta. All’epoca di Nerone scrisse tragedie il filosofo Anneo Seneca, destinandole più alla lettura che alla rappresentazione. Giunte fino a noi, sono caratterizzate da un morboso senso dell’orrido, del violento. La loro influenza fu grandissima nel teatro rinascimentale e in quello inglese dell’età elisabettiana (Shakespeare).

La sacra rappresentazione 

Tra la tragedia antica e quella moderna, si può collocare un genere teatrale del tutto a sé stante, fiorito in Italia nei secoli XIV e XV: la sacra rappresentazione.
Diffuso soprattutto in Toscana e in Umbria ad opera di autori spesso anonimi, esso proponeva a un pubblico di fedeli e durante le feste religiose (particolarmente quelle della settimana di Pasqua) la rappresentazione di fatti dell’Antico e del Nuovo Testamento, specialmente della vita e della passione di Cristo.
All’aperto, su un palco eretto davanti alla chiesa, attori improvvisati svolgevano un’azione scenica, che era insieme celebrazione di un rito religioso e spettacolo vero e proprio. Il pubblico ne era coinvolto, partecipando direttamente con preghiere e canti alla rappresentazione. Il genere ebbe diffusione anche in Francia dove fiorì contemporaneamente il mistero medioevale, in Inghilterra e soprattutto in Spagna, col cosiddetto auto sacramental, un dramma impostato sul tema del sacramento dell’Eucarestia, che ebbe cultori di grande statura poetica (Lope de Vega, Tirso de Molina e Calderon de la Barca).

La tragedia moderna

La tragedia rinacque nell’Italia del Rinascimento, modellandosi sulle forme greche, nelle quali riconosceva, come fondamentali, le cosiddette “unità”: unita di tempo, per cui l’azione doveva svolgersi nell’arco di una stessa giornata; unità di luogo, senza, vale a dire, mutamenti di scena; e unità d’azione, concentrando cioè l’azione su un unico avvenimento. Ciò comportava una certa staticità dell’insieme, a vantaggio tuttavia di una classica compostezza. Solo dall’età romantica in poi, in Francia e in Italia, il teatro si sarebbe liberato da questi vincoli. .

I maggiori scrittori di tragedia, nell’Italia del Cinquecento, furono Giangiorgio Trissino, Giovanni Rucellai, Pietro Aretino. In Francia, nel secolo successivo, Pierre Corneille (1606-84) e Jean Racine (1639-99), che portarono questo genere ad altissimi livelli poetici, mentre in Inghilterra fioriva il teatro tragico inglese dell’età elisabettiana, caratterizzato da libere forme strutturali e da notevole approfondimento psicologico.

Il Settecento dette ancora in questo campo l’opera dell’italiano Vittorio Alfieri e dei grandi poeti tedeschi Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller. Con l’avvento del Romanticismo, nei primi decenni dell’Ottocento, la tragedia lascia sempre di più il campo al dramma borghese: in esso il mito classico e la storia non hanno più luogo; predominano i conflitti contemporanei di una società uscita vittoriosa dalla Rivoluzione francese e già assillata da contraddizioni e problemi che il teatro dibatte davanti alle platee d’Europa e d’America, specchio, come forse non mai, del loro tempo.

Il dramma borghese

Gia i Greci antichi usavano la parola drama per indicare un componimento letterario strutturato sull’azione scenica (drao  = agisco). Ma fu nell’Ottocento che il termine prese il significato di oggi, e indicò un’opera teatrale tesa al dibattito dei conflitti morali, sociali, psicologici, nell’ambito della classe dominante, la borghesia. In questo senso, il dramma prese il posto della tragedia, distinguendosi da’ essa soprattutto per la rinuncia al personaggio eroico, all’intervento divino, al linguaggio solenne e poetico, alla classica compostezza. È quindi in prosa e in esso i conflitti e le contraddizioni esistenziali assumono spesso ritmi tumultuosi fino a scene di violenza e di sangue. I suoi eroi vanno dal capitano d’industria al commesso viaggiatore, dalla borghese adultera alla donna di malaffare; il suo dio e spesso il denaro; i suoi miti sono quello della conquista del benessere, i nuovi pregiudizi, l’inquietudine esistenziale.

Nel dramma, eccelsero in Francia Alexandre Dumas figlio, Henry Becque, e, nel secolo scorso, Jean Cocteau, Jean-Paul Sartre, Albert Camus; in Inghilterra, George Bernard Shaw, Thomas Stearns Eliot; in Germania, Hermann Sudermann; in Russia, Anton Cechov; in Italia Luigi Pirandello. Tra i maggiori fu il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, che fece del suo teatro una palestra di spietata denuncia contro la corruzione e l’ipocrisia della società del suo tempo.

In America il grande teatro drammatico e soprattutto di questo secolo: Eugene O’Neill , Thornton Wilder, Arthur Miller ne sono i maggiori rappresentanti.

La commedia classica

È anch’essa frutto del genio greco come la tragedia, alla quale si affiancò per tutto il secolo V a.C. con una straordinaria fioritura di opere e alla quale sopravvisse per quasi due secoli.

Originariamente fu anch’essa una sorta di rito religioso, che celebrava il culto fallico e la forza feconda della natura. Dalla tragedia, essa prese alcuni degli elementi strutturali, come il prologo e la pàrodos, nonché il Coro, che nei primi tempi, in quella che fu detta Commedia attica antica, ebbe grande importanza.
La differenziavano dalla tragedia il linguaggio più popolare e meno solenne, il lieto fine, la satira spesso violenta di uomini politici e della società, e insomma l’argomento legato sempre a vicende attuali.

Il massimo rappresentante di questa commedia più antica e il solo di cui ci sia avanzata, sia pur parzialmente, l’opera, e il comico Aristofane (445-388 a.C.).
Notevolmente diversa da questa, e la cosiddetta Commedia attica nuova, che fiorì in Atene durante il dominio macedone. Perduta la libertà, la satira politica non era più possibile. La nuova commedia s’indirizzo quindi alla analisi dei costumi e dei caratteri (l’avaro, il babbeo, il servo furbo, ecc.), creando un genere che avrebbe avuto sviluppi grandissimi nell’età moderna. Il massimo rappresentante della commedia nuova fu l’ateniese Menandro (342-290 a.C.) di cui però non avanzano che una sola commedia e frammenti delle altre numerosissime che egli scrisse.

In Roma, la commedia, modellata sui testi greci, ebbe parecchi cultori, tra i quali fanno spicco il grandissimo Plauto (259-184 a.C.) e l’elegante Terenzio (195-159 a.C.). Di essi restano rispettivamente una ventina di commedie del primo e sei del secondo, modelli fondamentali del teatro comico dal Rinascimento in poi.

La Commedia dell’arte e la commedia moderna

Dopo la lunga stasi del Medioevo, la commedia rinacque nel Cinquecento in Italia: l’Ariosto (dal 1508), il Machiavelli, l’Aretino, il Lasca, per citare i maggiori, ripresero in volgare l’antico genere teatrale, con opere destinate quasi sempre a un pubblico colto e allestite nei saloni dei palazzi signorili, mancando del tutto il teatro come ambiente costruito appositamente a questo scopo. Il primo teatro europeo in muratura fu costruito infatti soltanto nel 1580 a Vicenza, dal Palladio, il cosiddetto Teatro Olimpico, gioiello di classica eleganza. A rendere popolare il genere comico fu piuttosto la Commedia dell’arte, una singolarissima forma di rappresentazione teatrale, che portò il gusto della scena nelle piazze e nelle strade, tra la gente. Sotto il punto di vista letterario, la Commedia dell’arte è pressoché inconsistente, trattandosi di rappresentazioni improvvisate su un “canovaccio”, cioè uno schema di trama, intorno al quale gli attori imbastivano i loro dialoghi. Ma sotto il punto di vista teatrale, l’importanza di questo genere è fondamentale, perché con gli attori del teatro dell’arte nascono i primi attori professionisti, nascono le maschere (Arlecchino, Pantalone, Brighella, ecc.), ciascuna specializzata in un ruolo caratteristico; nascono e prendono grande sviluppo la mimica, la gestualità teatrale, il colpo di scena, il dialogo col pubblico: tutta quella serie di espedienti che costituiscono tanta parte dell’arte scenica successiva. Dal teatro dell’arte, che trionfò per quasi due secoli su tutte le platee d’Europa, prese sviluppo il grande teatro comico moderno; la commedia in Francia del Molière (1622-1673); quella, in Inghilterra, del Congrave (1670-1729); quella in Italia di Carlo Goldoni (1707-1793), che, sviluppando un programma di rinnovamento sostanziale della Commedia dell’arte, approdo ad autentici capolavori di naturalezza e di forza rappresentativa.

Nell’Ottocento, accanto al dramma borghese, la commedia raggiunse la sua massima diffusione, brillando soprattutto in Francia; é impossibile seguirne qui dettagliatamente gli sviluppi o elencarne i numerosissimi autori. Quel che importa è notare come rare volte, nella storia dell’attività letteraria, un genere riuscì a raggiungere un grado di popolarità e una incisività nel costume e nella vita sociale come la commedia ottocentesca, nelle sue varie sfumature, predominando in essa di volta in volta ora il carattere sentimentale, ora il gusto per la battuta scintillante, ora l’intrico delle situazioni complicate e umoristiche, ora il carattere farsesco vero e proprio; il tutto su uno sfondo di contemporaneità, che rende questo genere letterario tra i più significativi dell’epoca.

Il melodramma

Sul finire del Cinquecento, nell’ambito delle ricerche intorno alla tragedia antica e ai suoi rapporti con la musica, un gruppo di studiosi e musicisti fiorentini, la cosiddetta Camerata de’ Bardi, dette vita a un genere nuovo: il melodramma, cioé il dramma in musica. Il primo poeta di questo genere fu Ottavio Rinuccini, che intorno a1 1600 scrisse testi di argomento mitologico per alcuni musicisti, tra cui il Monteverdi. La struttura del testo poetico, che si cominciò a chiamare il “libretto”, sempre in versi variamente combinati, si fondava su una azione essenziale, ridotta a pochi avvenimenti, con dialoghi destinati alla recitazione cantata (il “recitar cantando”) e “arie” o “ariette” destinate a più ampio sviluppo melodico.

Dopo il Monteverdi, la musica prese il sopravvento sul testo poetico e i libretti divennero poco più che un pretesto per offrire trame e parole al virtuosismo dei compositori. Una riforma fu tentata nel Settecento dal librettista Apostolo Zeno e soprattutto da Pietro Metastasio (1698-1782), che scrisse testi di alta validità poetica, restituendo al libretto la dignità letteraria che aveva perduta. E grande merito ha in questo senso un altro librettista italiano, Lorenzo Da Ponte, che scrisse i testi per le musiche operettistiche di Mozart.

Nell’Ottocento, di pari passo col trionfo del melodramma romantico (ormai chiamato “opera lirica”), il libretto ritorno a piegarsi fedelmente alle esigenze del compositore. Ai librettisti (praticamente tutti italiani) si richiesero, più che grande poesia, trame avvincenti, perfetta conoscenza delle forme melodiche e capacità di adattarsi ad esse. Tra i librettisti più noti, ricorderemo Felice Romani, Francesco Maria Piave, Giuseppe Giacosa, Luigi Illica, Arrigo Boito, i cui libretti servirono alle musiche di Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini. Wagner scrisse egli stesso i testi poetici per i suoi grandi drammi musicali.

Il teatro del Novecento

Agli inizi del nostro secolo predomina sulle scene il dramma di Henrik Ibsen – il cosiddetto “teatro a tesi” , che cioè affronta in ogni opera un tema di attualità sociale e ne dibatte i termini attraverso il congegno scenico; il dramma naturalistico, che porta sul palcoscenico una tranche de vie, una fetta di vita, con frequenti puntate verso il truculento (ne sono spesso oggetto il crimine, la malavita); il dramma del russo Anton Cechov, con le sue scene dense della dolente atmosfera della campagna russa; il teatro paradossale dell’inglese George Bernard Shaw; la tragedia decadente di Gabriele D’Annunzio; mentre continua il successo della commedia brillante francese. A questo teatro reagiscono le avanguardie letterarie, come il Futurismo, con le loro dissacranti proposte di rinnovamento totale che hanno gli esiti migliori nel teatro del russo Vladimir Majakovskij; reagisce il teatro “problematico” di Luigi Pirandello, con le sue ambiguità e le sue audacie formali; reagisce infine, in senso antinaturalistico, il teatro cosiddetto “epico” di Bertolt Brecht, impegnato anche politicamente al dibattito dei grandi miti contraddittori del nostro tempo.

Tra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale, accanto al grande teatro americano, cui già si è fatto cenno (O’Neill, Arthur Miller), la ricerca di nuovi temi e di nuove forme teatrali si è sviluppata in molte direzioni: autori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Samuel Beckett, Eugene Ionesco, per citare alcuni dei maggiori, hanno rappresentato l’impotenza dell’uomo moderno di fronte ai problemi dell’esistenza, delle ragioni della vita, fino alle laceranti conclusioni del “teatro dell’assurdo”, con le sue parodie inquiete, ai limiti dell’incomunicabilità e del silenzio, e le relative proposte di un teatro che e più di mimica e di gesto che non di parole, lo spettacolo inteso come opera collettiva, come un rito che vuol coinvolgere lo spettatore anche materialmente (il Living Theater, per esempio, che tanto successo ebbe in America e in Europa negli anni Sessanta), fino ai recentissimi esperimenti, in Italia, del teatro religioso di Giovanni Testori che porta sulle piazze vere e proprie sacre rappresentazioni moderne (Interrogatorio a Maria, ecc.).

Va infine accennato a una delle caratteristiche salienti del teatro degli ultimi decenni: l’affermazione di un impegno culturale e politico, che ha creato la figura del regista moderno, primo responsabile della realizzazione scenica e contemporaneamente ha dato vita a organizzazioni stabili, sovvenzionate dallo Stato, con compiti di un vero e proprio servizio pubblico e sociale.

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